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Da "Umanità Nova" n.32 del 17 ottobre 1999

Università popolari tra passato e futuro
Cultura e Rivoluzione Sociale

Fino a non molti decenni fa, in Italia fino agli anni cinquanta all'incirca, l'istruzione - ed in particolare l'istruzione superiore, per non parlare di quella universitaria - era, salvo rare eccezioni, privilegio delle classi superiori. L'organizzazione istituzionale dell'educazione, pertanto, era perfettamente congruente con l'obiettivo di formare le classi dirigenti a quello che sarebbe stato il loro ruolo gerarchico dominante nella società. Ai giovani rampolli della borghesia veniva offerto un curriculum di studi estremamente severo e selettivo, che forniva loro, da un lato, attraverso le lezioni in senso stretto, una serie di strumenti culturali di notevole qualità; dall'altro, attraverso il clima militaristico che permeava le istituzioni scolastiche ed universitarie, il senso della gerarchia e l'abitudine alla lotta per il dominio nella società. Le classi lavoratrici erano del tutto escluse dai processi forti di acculturazione, ed affidate, nel migliore dei casi, alla irregimentazione ideologica fornita, in primo luogo, dalle strutture "educative" religiose.

Certo, niente di nuovo sotto il sole. La borghesia, fatta astrazione per alcuni contenuti culturali nuovi (in primo luogo quelli derivati dalla Rivoluzione Scientifica e da un certo Illuminismo), proseguiva, strutturalmente, sulle orme delle classi dominanti che l'avevano preceduta nella storia. A partire dalla seconda metà del secolo scorso, però, ha dovuto fare i conti con la sempre maggiore complessità tecnologica dei processi della produzione e dei servizi, che richiedevano, a differenza delle prime fasi della Rivoluzione Industriale, una manodopera sempre più specializzata e, in alcuni casi, anche dotata di un minimo di strumenti culturali in senso forte. La risposta dello Stato a queste esigenze della produzione fu, da un lato, l'obbligo scolastico elementare - il "leggere, scrivere e far di conto" esteso a tutte le popolazioni dei paesi industrializzati - e, dall'altro, l'apertura graduale di una serie di istituti di formazione professionale, nei quali fornire il minimo indispensabile di cultura aggiuntiva, necessaria alla acquisizione delle cognizioni tecniche necessarie allo sviluppo della produzione industriale e dei servizi, mentre la "cultura superiore" restava riservata alle classi dominanti.

Nel frattempo, però, il movimento socialista, nelle sue varie componenti, aveva fatto passi da gigante, e cominciava a porsi seriamente il problema di fornire alle classi lavoratrici gli strumenti culturali indispensabili per comprendere il mondo in cui vivevano, sfuggire ai meccanismi ideologici che le tenevano soggiogate, reagire efficacemente alle iniziative della lotta di classe della borghesia contro di loro. A partire dalla fine del secolo scorso, ci fu pertanto un crescendo di iniziative in tal senso, che presero variamente il nome di "Biblioteche", "Scuole" o "Università" "Moderne", "Popolari" o "Proletarie". La famosa frase dell'infermiera anarchica americana Emma Goldman "il pane sì, ma anche le rose" riassume efficacemente il senso di questo movimento, che ebbe un'enorme diffusione e che, sostanzialmente, si identificò[1] con la politica culturale "proletaria" del movimento sovversivo, sia di matrice marxista sia di matrice anarchica.[2]

Il processo di sviluppo tecnologico rendeva però sempre più necessaria e sempre più diffusa un'acculturazione in senso forte delle classi lavoratrici. In effetti, a partire dal primo ed ancor più nel secondo dopoguerra, il ritmo degli sviluppi tecnologici si è fatto via via più incalzante. Di fronte a questa situazione, fabbriche e servizi non riuscivano più ad utilizzare efficacemente i lavoratori specializzatisi negli Istituti di Formazione Professionali vecchio modello. Si rendeva necessaria la possibilità di disporre di una forza-lavoro che possedesse - oltre e più che una specifica competenza professionale - della capacità di adattarsi velocemente alle mutate condizioni lavorative,[3] e questo comportava dei livelli di acculturazione sempre più vicini a quelli tradizionalmente forniti alle classi dominanti. La risposta dello Stato a questa necessità fu a tre livelli. Al primo livello, si tese a generalizzare ed uniformare l'istruzione elementare e media inferiore; al secondo livello, si ampliò l'offerta culturale "forte" presente negli Istituti di Formazione Professionale ed in quelli Tecnici; al terzo livello, si "liberalizzò" l'accesso all'istruzione "liceale" e, successivamente, anche a quella universitaria: un'operazione che fu favorita anche dalle condizioni venutesi a creare con le politiche di stampo keynesiano, tipiche del secondo dopoguerra.

Questo processo, però, se sull'immediato rispose alle esigenze cui intendeva dare risposta, sul medio periodo ebbe delle conseguenze impreviste. Infatti, al di là dei contenuti propinati, lo studente delle classi subordinate apprendeva anche una serie di meccanismi mentali che, all'interno del diverso contesto delle sue condizioni di vita e di lavoro, gli permettevano spesso di costruirsi una diversa visione del mondo, sfuggire a determinati meccanismi ideologici, capire le mosse dello Stato e delle classi imprenditoriali e reagire efficacemente ad essa. In un certo senso, lo Stato aveva involontariamente portato a compimento il progetto del movimento delle Università Popolari: estendere alle classi lavoratrici il possesso della forma mentis scientifica. Inoltre, la necessità di una "scuola di massa" aveva costretto lo Stato ad ampliare il corpo insegnante, inserendovi dentro anche un gran numero di elementi ideologicamente contrari allo status quo, e che veicolavano una serie di contenuti culturali che andavano nell'ottica di una trasformazione politica e sociale dell'esistente. Lo sviluppo dei movimenti dei lavoratori e degli studenti degli anni sessanta e settanta misero in difficoltà le classi dominanti, e posero lo Stato nella necessità di elaborare una strategia diversa.

Da un lato, la cosiddetta "scuola di massa" non andava abbandonata, per il semplice fatto che essa offre un utile "contenitore" dove imbrigliare una gran massa di giovani espulsi dagli sviluppi tecnologici, per larga parte della loro esistenza, dal mercato del lavoro, impedendogli così di sviluppare in pieno la coscienza della loro situazione; dall'altro non si poteva più permettere che tale contenitore desse loro contenuti culturali forti. La risposta dello Stato è stata allora a due livelli. Al primo livello, si è dequalificata la "scuola di massa", ottenendo, con una serie di accorgimenti volti ad ostacolare il processo concreto di insegnamento-apprendimento,[4] che la gran parte degli studenti non riuscisse ad accedere ai contenuti culturali di cui, in teoria, l'Istituto che frequenta dovrebbe essere portatore; al secondo livello, si è allargata la forbice tra gli istituti culturali - "pubblici" o privati - riservati alle classi dominanti e quelli "normali".

Da questo punto di vista, l'attuale volontà dello Stato italiano in merito alla cosiddetta "parificazione" tra "pubblico" e "privato", non va affatto nell'ottica di creare un gran numero di scuole di buon livello, sia pure private. Lo Stato sa benissimo che i movimenti degli anni sessanta e settanta sono stati fortissimi anche in paesi dove la presenza pubblica nell'educazione era ridotta e, talvolta, ridottissima, oltre al fatto che, in Italia, gli studenti delle "Università Cattoliche" non sono stati certo in seconda fila nelle contestazioni del periodo. Quello che desidera, invece, al di là di contingenti considerazioni di basso profilo economico, è che tali scuole, in larga misura cattoliche, operino il meccanismo di irregimentazione ideologico che le sono proprie, e che la scuola pubblica, in quanto di fatto pluralista per la composizione del suo corpo insegnante, non è in grado di assicurarle. Per tutto il resto, tali scuole verranno "parificate" alle condizioni della scuola di Stato, in altre parole, qualora non lo fossero già, ridotte a meri "contenitori" ed "esamifici".

Traiamo le conclusioni: le classi lavoratrici sono state nuovamente espulse dall'istruzione, e le si è lasciato loro solo la parvenza di un'educazione garantita a basso (e non più tanto, e lo sarà sempre di meno) costo. I processi tecnologici attuali necessitano, in un'ottica capitalistica, solo di pochi lavoratori seriamente acculturati, e questi usciranno sempre, statisticamente, anche da una "scuola" ridotta in questo stato. Ma chi desidera un processo di trasformazione dell'esistente, chi intende risolvere la "questione sociale", non può certo accontentarsi di questo. Certo il termine di Università Popolari oggi non richiama certo alla mente l'idea di strutture volte ad offrire alle classi popolari gli strumenti per una tale trasformazione - ma d'altronde il termine stesso di "sinistra" oggi ha subito la stessa sorte. Ma alla cosa stessa occorre guardare oggi, con rinnovata attenzione.

Shevek dell'OACN-FAI di Napoli


[1] Indicativo di quest'identificazione, fu il fatto che, nei momenti di maggiore repressione dei movimenti proletari, queste strutture venivano chiuse, soggette ad attentati, ecc. né più né meno delle organizzazioni "ufficiali" della sinistra di classe. Ad esempio, in Italia, furono ripetutamente bersaglio delle squadracce fasciste, ed il fascismo al potere non manco di chiudere legislativamente le poche che rimanevano.

[2] Salvo qualche influenza di certa borghesia "illuminata" di stampo massonico, che animò alcune di queste iniziative nell'intento di contrastare il predominio della cultura cristiana nella società, ma senza alcuna velleità di trasformazione politica e sociale. La cosa divenne evidente in occasione della Prima Guerra Mondiale, quando le strutture di matrice massonica si schierarono a favore del conflitto, provocando un po' dovunque forti reazioni da parte della maggioritaria componente di matrice "sovversiva", e provocando la scissione di quelle strutture dove le due componenti convivevano.

[3] Esigenza ancora oggi forte e ribadita, in tempi recenti e in più occasioni, dalle varie associazioni imprenditoriali.

[4] Giusto qualche esempio tra i molti che si potrebbero citare. L'insegnante è stato gradatamente oberato di carichi (scartoffie, in primo luogo, ma anche i famigerati "progetti", "aggiornamenti", ecc.) quasi sempre del tutto inutili ed inessenziali che, al momento attuale, costituiscono la gran parte del suo tempo di lavoro e gli impediscono di concentrasi sull'essenziale: fare una buona lezione, curare il rapporto educativo con gli studenti, continuare a sviluppare il proprio bagaglio culturale (indicativa della volontà dello Stato in tal senso è stata l'abrogazione dello sconto sui libri che era riservato agli insegnanti); una serie di norme mettono il buon insegnante che si concentra sull'aspetto essenziale del suo mestiere (e che, di conseguenza, limita al minimo indispensabile il coinvolgimento negli aspetti inessenziali citati in precedenza) nella condizione di un vero e proprio peones, apprezzatissimo dagli alunni e dai genitori ma senza alcuna speranza di carriera, e lo stesso vale per i presidi; un'altra serie di norme (che giocano ideologicamente sulla confusione tra il voto come meccanismo di comunicazione all'alunno delle competenze effettivamente raggiunte e la selezione sociale) impongono promozioni ultrafacili e demotivano l'alunno all'apprendimento di contenuti culturali forti; ecc.



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