unlogopiccolo

Da "Umanità Nova" n.33 del 24 ottobre 1999

Dibattito:
Cinque tesi sullo stato del conflitto fra le classi

Da questa settimana inizia sulle pagine di Umanità Nova un dibattito sulle trasformazioni sociali in atto, il mondo del lavoro, le modalità di ridefinizione del potere statale e di quello padronale a livello nazionale ed internazionale, le dinamiche della globalizzazione e le forme del controllo politico, il dispotismo statale, la guerra come paradigma delle relazioni tra singoli stati e tra stati e società civile... Questi temi, tra l'altro, sono all'ordine del giorno del prossimo Congresso della FAI.


Cinque tesi sullo stato del conflitto fra le classi

Le note che seguono non hanno né la pretesa della completezza né quella della sistematicità e si inseriscono nell'ambito di un lavoro più ampio su questi stessi temi, lavoro che varrà ripreso sin dal prossimo numero del giornale.

1 Modo di produzione capitalistico come seconda natura e sua conseguente invisibilità

Il modo di produzione capitalistico appare oggi, agli occhi della stragrande maggioranza di coloro che pure ne sono schiacciati, come assolutamente naturale. Questa "naturalità" deriva dal fatto che una serie di crisi interne all'ordine dominante, anche straordinariamente gravi, sono state superate mediante continui adattamenti, a volte graduali ed altre volte traumatici. Gran parte delle stesse pratiche che si volevano rivoluzionarie sono state, nel corso dei passati decenni, incorporate nelle relazioni produttive e sociali dominanti e trasformate in normali elementi dell'ordine sociale.

Basta pensare, a questo proposito, a quanto è avvento, di norma, al sindacalismo, al cooperativismo, alla critica della morale corrente ed alla conseguente affermazione di stili di vita trasgressivi.

Va, pertanto, compreso sino in fondo, nelle sue conseguenze storiche e sociali, il carattere "rivoluzionario" del modo di produzione capitalistico e il fatto che gli equilibri volta volta raggiunti fra capitale e lavoro vengono continuamente messi in forse.

Interi settori della popolazione che si erano sottratti alla proletarizzazione vengono ricondotti alla condizione salariata e i settori sociali già proletarizzati vedono erosi gli spazi di controllo sulla propria situazione che si erano conquistati con le lotte passate o che erano stati loro concessi dalle classi dominanti all'interno di una politica di compromesso sociale.

D'altro conto, il crollo del blocco sovietico sembra, al senso comune, la prova indiscutibile che ogni tentativo rivoluzionario è condannato non solo a produrre modelli sociali dispotici e inefficienti ma anche ad essere riassorbito, sul lungo periodo, nella deriva generale del capitalismo di mercato e della democrazia liberale con l'effetto di apparire oltre che inaccettabile dal punto di vista della capacità di favorire libertà e benessere anche perdente e subalterno.

Nello stesso tempo questo crollo ha permesso un'espansione straordinaria dell'area del dominio del capitalismo nella sua forma occidentale ed un indebolimento, almeno a breve, della forza sindacale, politica e sociale del movimento operaio.

2 Crisi delle teorie critiche

Sebbene non manchi una significativa attività di critica teorica dell'ordine sociale dominante è innegabile che vi sia una generale situazione di difficoltà delle teorie critiche che tendono a collocarsi in un'attitudine difensiva a fronte sia della forza dell'avversario che della debolezza dell'opposizione sociale su scala mondiale.

Una teoria critica o un assieme di teorie critiche non può essere, infatti, una mera denuncia dei mali sociali o delle contraddizioni del discorso dominante ma deve individuare le forze storiche portatrici, quantomeno in potenza, di possibilità di emancipazione.

La debolezza di ogni attuale proposta rivoluzionaria non sta principalmente nella pars destruens che in realtà può essere sostenuta con argomenti assolutamente solidi ma nella pars costruens e cioè nella definizione delle pratiche sociali adeguate all'ordine delle contraddizioni che la critica individua, pratiche sia delle minoranze rivoluzionarie che delle classi subalterne in quanto tali

Il compito che, di conseguenza, ci troviamo di fronte, è duplice:

- la denuncia puntuale dei caratteri distruttivi e intollerabili del modi di produzione capitalistico;

- l'individuazione di proposte di azione, di obiettivi immediati ed intermedi, di forme organizzative capaci di efficacia e radicalità.

Le tre tesi che seguono sono un contributo all'assolvimento del primo dei due compiti che ritengo necessario assolvere.

3 Crescita, su base planetaria, del lavoro industriale negli ultimi cinquanta anni. Carattere ideologico delle teorie sulla società postindustriale.

Una pura rilevazione dei dati statistici dimostra che una delle canzoni che dobbiamo ascoltare continuamente, quella che ripete che i lavoratori industriali sarebbero in estinzione, è falsa se si ha l'accortezza di valutare la situazione nell'unica prospettiva dotata di senso e cioè in quella planetaria. Negli ultimi cinquant'anni il classico proletariato industriale è cresciuto in maniera massiccia e intere aree del pianeta che erano estranea al modello industriale ne sono coinvolte.

Nel mentre cresceva il numero dei lavoratori industriali si è assistito, per un verso, al fatto che la produttività del lavoro si è accresciuta in maniera straordinaria mentre l'orario medio di lavoro non si è ridotto in maniera significativa nei nelle metropoli del capitale e si è dilatato spaventosamente nelle sue periferie.

Il lavoro salariato, in buona sostanza, resta la condizione di una gigantesca massa di esseri umani e la sottomissione al lavoro il centro della questione sociale.

Il discorso dominante considera le attività produttive come divise in primario, secondario e terziario con l'effetto di produrre una classica allucinazione ideologica visto che la crescita del lavoro nel settore terziario o, se si preferisce, dei servizi dimostrerebbe la fina del lavoro industriale come luogo dell'accumulazione e del conflitto sociale.

Uno sguardo meno superficiale ci fa rilevare che il lavoro nei servizi cresce come condizione necessaria alla riproduzione sociale (formazione, assistenza, trasporto, amministrazione ecc.) e come effetto della dissoluzione delle relazioni sociali precapitalistiche, dissoluzione che comporta la necessità di acquistare sul mercato o di ottenere dalla macchina statale prestazioni e servizi che nell'ambito delle relazioni sociali tradizionali erano o inesistenti o garantiti dalla struttura familiare o da quella della comunità locale.

Il segmento della forza lavoro addetto ai servizi è, in misura crescente, sottoposto a condizioni di lavoro ed a relazioni sociali esattamente simili a quelle che caratterizzano il lavoro di fabbrica. Se, quindi, si ha la semplice accortezza di non confondere fabbrica ed industria ci accorgiamo che il lavoro industriale cresce contemporaneamente nella produzione diretta e nel lavoro di riproduzione.

4 Il rapporto diretto fra capitale e lavoro: alcune ragioni delle difficoltà nell'azione per la riduzione dell'orario di lavoro

A fronte della crescita della produzione e della produttività alla quale abbiamo fatto cenno sarebbe stato "ragionevole" attendersi una corrispondente riduzione dell'orario medio di lavoro. Verifichiamo, invece, che, mentre fra la metà del XIX secolo e quella del XX secolo una riduzione effettiva dell'orario di lavoro si è ottenuta grazie a importanti cicli di lotta del lavoro salariato non altrettanto è avvenuto negli ultimi cinquanta anni. Possiamo individuare alcune spiegazioni alla rigidità dell'orario di lavoro senza, in questa sede, far riferimento alla flessibilità crescente dell'orario e del mercato del lavoro:

scambio orario - consumi (modello soggettivistico): un'ipotesi che viene proposta da diversi studiosi pone l'accento sul fatto che, negli anni dello sviluppo seguiti alla seconda guerra mondiale, i lavoratori salariati avrebbero puntato più ad aumenti salariali che a riduzioni di orario al fine di garantirsi una quota crescete di consumi. In buona sostanza saremmo di fronte ad un patto sociale non dichiarato e basato sulla condivisione da parte della working class dei valori sociali dominanti;

rigidità derivante dall'aumento della composizione organica del capitale (modello oggettivistico): l'aumento della quota di capitale investita per addetto ha reso le imprese ostili ad ogni seria riduzione dell'orario di lavoro e più disposte a concessioni salariali meno costose e, nel contempo, più efficaci al fine di garantire il consenso sociale e la disciplina del lavoro,

costi crescenti della riproduzione sociale: l'aumento della produttività del lavoro nel settore industriale ha fornito le risorse per garantire la crescita del numero degli addetti alla riproduzione sociale che operando spesso nel settore pubblico e, comunque, in attività difficilmente sostituibili con macchinari sono cresciuti numericamente in misura più che proporzionale rispetto agli addetti alla produzione diretta. Vi sarebbe stata una redistribuzione del salario all'interno della stessa working class, per un verso, oltre che la crescita dei costi delle classi medie legate all'intervento pubblico nell'economia,

concorrenza sul mercato del lavoro della forza lavoro periferica: i movimenti sindacali dei lavoratori delle metropoli del capitale hanno dovuto e devono fare i conti con la possibilità per le imprese di trasferire produzioni in aree periferiche o di utilizzare nelle stesse metropoli lavoratori disponibili ad accettare salari minori e condizioni di lavoro peggiori. Questa pressione diretta o indiretta ha contribuito a contenere i salari e le riduzioni dell'orario di lavoro.

5 Sulla dialettica fra stato, capitale, movimento operaio: la crisi del compromesso socialdemocratico.

Se definiamo come compromesso socialdemocratico non solo il governo di partiti, appunto socialdemocratici, ma l'affermarsi fra gli anni `40 e `70 di una modalità di relazioni fra capitale e lavoro volta a contenere il conflitto di classe mediante la crescita contemporanea della produttività del lavoro, delle retribuzioni, dei servizi sociali e l'integrazione del movimento operaio al governo della società a prescindere dai partiti al governo. Si tratta, evidentemente, di un modello sociale affermatosi nelle metropoli del capitale, le cosiddette democrazie industriali.

La crisi di questo compromesso è generalmente spiegata con la caduta del saggio di profitto a partire dagli anni `70 e con la maggior integrazione mondiale del capitale, integrazione che ha ridotto il ruolo ed il potere dei singoli stati nazionali.

La crisi si manifesta nella necessità, dal punto di vista capitalistico, di tagliare la spesa pubblica, di ridurre la pressione fiscale sui gruppi sociali dominanti. di introdurre nel settore dei servizi pubblici modalità di gestione capitalistiche classiche o semplicemente di privatizzarli consegnandoli al mercato.

Le misure suindicate hanno sovente trovato il consenso di settori della working class interessati a riduzioni della pressione fiscale o già estranee al sistema di protezione garantito del compromesso socialdemocratico ed hanno favorito un'ulteriore scomposizione delle classi subalterne rispetto agli equilibri precedenti.

Ritengo evidente che non può esservi da parte nostra alcuna nostalgia né per il compromesso socialdemocratico né per la statalizzazione del movimento operaio che ne ha accompagnato l'affermazione.

D'altro canto non può esservi alcuna illusione su di un'automatica nascita di un movimento delle classi subalterne autorganizzato e radicale. Al contrario viviamo in una fase di conflitto sociale sovente legato a dimensioni locali, categoriali e particolari che trova straordinarie difficoltà a sviluppare una nuova prospettiva unificante.

La mentalità sedimentatasi in decenni di statalizzazione del movimento dei lavoratori, la presenza degli apparati istituzionali, la capacità di egemonia padronale vanno considerati come ostacoli non di poco conto.

D'altro canto la crisi del tradizionale sistema delle garanzie sociali apre spazi anche ad una destra sociale populista, razzista, xenofoba, localista o nazionalista che cerca di conquistare consensi fra i membri delle classi subalterne.

Nulla, insomma, è scontato e si tratta, dal nostro punto di vista, di operare su tutti i terreni da quello culturale a quello dell'intervento diretto che la crisi del vecchio movimento operaio apre per individuare prospettive nuove ed efficaci di azione.

Cosimo Scarinzi



Contenuti UNa storia in edicola archivio comunicati a-links


Redazione: fat@inrete.it Web: uenne@ecn.org