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Da "Umanità Nova" n.34 del 31 ottobre 1999
Dibattito
Il pensiero unico capitalista
Prosegue il dibattito iniziato la settimana scorsa sulle trasformazioni sociali in atto, il
mondo del lavoro, le modalità di ridefinizione del potere statale e di
quello padronale a livello nazionale ed internazionale, le dinamiche della
globalizzazione e le forme del controllo politico, il dispotismo statale, la
guerra come paradigma delle relazioni tra singoli stati e tra stati e
società civile, tempi e modi della trasformazione sociale... Questi
temi, tra l'altro, sono all'ordine del giorno del prossimo Congresso della
FAI.
La constatazione che si potrebbe fare osservando il mondo dell'economia e del
lavoro oggi è che Adam Smith e la sua "Ricerca sulla natura e le cause
della ricchezza delle nazioni" del 1776 sono un testo attualissimo e che merita
la massima attenzione. Infatti, a duecento anni dalla rivoluzione industriale
inglese, la vita economica pare basarsi su un ordine naturale perfetto e
provvidenziale, il quale garantisce la coincidenza di interesse del singolo e
interesse collettivo. L'unico principio adatto a creare una società
ricca e prospera è lo sforzo naturale di ogni individuo a migliorare la
sua condizione. Ogni laccio frapposto alla libera azione dei singoli, primi fra
tutti gli imprenditori, impedisce che la società nel suo complesso si
arricchisca, in quanto la somma di tutti gli egoismi produce un naturale
equilibrio che crea il benessere comune. Questa, ridotta all'osso, la teoria
smithiana. Ma oggi di che si parla? Sembra che il tempo non sia passato, quanto
a discorsi su lavoro ed economia: centralità dell'impresa e
dell'imprenditore, flessibilità della forza lavoro, incentivi alle
imprese, rimozione di vincoli all'agire dell'imprenditore, ecc. ecc. Bisogna
dire che pare che il capitalismo e il liberismo economico abbiano vinto una
battaglia non solo sociale e politica, ma anche culturale, contro i sistemi e
le teorie che storicamente si sono contrapposte loro. Non è sufficiente
quindi analizzare lo scontro tra capitalismo liberista e capitalismo di stato,
con annessi, rispettivamente, democrazie occidentali e socialismo reale, e dire
che l'uno ha vinto perché funziona e l'altro ha perso perché,
storicamente, non ha creato benessere diffuso e consenso. Dire questo sarebbe
limitante, in quanto entrambe le teorie hanno una pretesa di
scientificità che va combattuta sullo stesso terreno, se si vuole
smascherarne l'ipocrisia. E se si vuole discutere sul piano culturale non si
può prescindere dalle modalità con cui qualsiasi messaggio oggi
viene diffuso, oggi che il messaggio stesso è merce, anzi la merce per
antonomasia, tanto che si parla di società dell'informazione per dire
che è il circuito di produzione e trasmissione dei messaggi che fa la
società. E il dominio del pensiero unico capitalista non passa solo
attraverso la sua maggior efficienza o l'uso della forza contro chi vi si
oppone, forza militare o strangolamento economico. Piuttosto, siamo davanti
alla capacità del capitalismo di creare una simulazione di
realtà, di astrazione piena della materialità dell'esistenza
umana, risucchiata nel buco nero della comunicazione autoriproducentesi. Ma il
principio di astrazione sta dentro il codice genetico del capitalismo come modo
di produzione: la lotta senza quartiere che si è svolta negli ultimi due
secoli è proprio quella tra capitale e lavoro vivo ed è
consistita nella inarrestabile spinta del primo a fare a meno del secondo, dopo
averlo letteralmente spremuto il più possibile. Il lavoro subisce la
smaterializzazione nel momento della produzione e subisce la simulazione di
realtà del circuito dei segni che fanno la cultura. Ipersfruttamento nel
momento della produzione e ipersfruttamento in ogni momento di vita per
l'onnipervasività dei flussi di informazione autoriproducentesi. La
disoccupazione aumenta, ma non cala il numero complessivo di ore lavorate;
l'intera società è messa al lavoro perché risucchiata nel
flusso produzione-consumo che è una simulazione di realtà di cui
i massmedia sono specchio, ma anche elemento essi stessi, nel senso che
dicevamo prima quando parlavamo del circuito di produzione e circolazione delle
informazioni come merce.
Il capitalismo è di per sé astrazione e sguazza come un pesce
nell'acqua della società dell'informazione, dei segni prodotti e
trasmessi. Stante l'onnipervasività di quest'ultima, ne risulta la
presunta naturalità del modo di produrre capitalista. Non c'è
più differenza tra rappresentante e rappresentato. Come si fa a parlare
di qualcosa, quando è questo stesso qualcosa è l'alfabeto, il
dizionario, la grammatica, la sintassi del discorso?
Simone Bisacca
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