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Da "Umanità Nova" n.34 del 31 ottobre 1999

Reddito di cittadinanza: le briciole nel piatto

Da alcuni anni a questa parte le sinistre riformiste-rivoluzionarie hanno preso a cuore il dibattito sul reddito di cittadinanza: non che la discussione sia di fresca data, ma la tendenza prevalente del passato recente (anni '70 e'80) era quella liquidatoria.

Ovvero: la sinistra marxista riconduceva il dibattito sul reddito ad una questione di freno alla propensione rivoluzionaria delle masse diseredate. Un salario erogato indistintamente a tutti i disoccupati ed inoccupati avrebbe favorito ed alimentato la passività contribuendo ad adagiare il proletariato sulla condizione esistente.

Per gli anarchici il problema del reddito di cittadinanza si poneva e si pone soprattutto nel fattore `dipendenza' da un'erogazione statale.

Quello che ora mi preme affrontare non è la questione vista dai nostri punti di vista, ma cercare di capire come una proposta di reddito di cittadinanza potrebbe essere accolta o proposta dall'attuale sistema politico italiano, all'interno, ovviamente, del più ampio "contesto" europeo.

Il riferimento teorico da cui si deve partire sono le "politiche attive del lavoro". Il termine viene coniato negli anni '50 in Svezia ed ha come caratterizzazione di fondo quella di voler incidere direttamente sulla struttura del mercato del lavoro, favorendo l'adeguamento delle caratteristiche di coloro che aspirano ad un'occupazione alle esigenze della domanda di lavoro.

Le azioni da parte dello stato si connaturano per la creazione di posti di lavoro in conseguenza a specifici interventi di formazione di una domanda particolare: questo voleva dire che lo stato si faceva promotore attivo dell' "invenzione" di nuove figure professionali.

Le politiche del lavoro degli ultimi anni possono essere suddivise nelle seguenti tipologie:

Politiche volte a modificare la regolamentazione del mercato del lavoro: deregolamentazione dei processi di entrata (contratti d'area ecc.) gli incentivi per il ricambio dell'occupazione (mobilità, prepensionamento o dimissioni volontarie) e quelli per la suddivisione del lavoro (part-time, flessibilizzazione dell'orario di lavoro ecc.)

Politiche connesse all'informazione e alla conoscenza del mercato del lavoro: riforma del collocamento, l'orientamento scolastico e al lavoro, creazione di centri per giovani e disoccupati ecc.

Politiche che operano sull'occupazione, con l'obbiettivo di adeguare l'offerta alla domanda, connesse a strategie formative: alternanza scuola-lavoro, i contratti di formazione e lavoro, l'apprendistato e il tirocinio, le attività di formazione finalizzate alla creazione di imprese, ecc.

Misure tese ad incentivare il sistema delle imprese per sollecitare o difendere la domanda di lavoro: agevolazioni fiscali per le imprese (fiscalizzazione degli oneri sociali, detassazione degli utili), salvataggio aziende in crisi, creazione di cooperative di produzione e lavoro, incentivi all'assunzione di portatori di handicap, ecc.

Misure dirette a creare occasioni di lavoro indipendentemente dalla domanda di mercato: assunzioni nella pubblica amministrazione, lavori di pubblica utilità, i piani sui giacimenti culturali ecc. (Fonte "La valutazione delle politiche attive del lavoro", Torino Incontra, 1995)

Perché allora parlare di politiche attive del lavoro quando strutturalmente la questione del reddito di cittadinanza si inserisce nelle politiche passive, ovvero in quelle azioni puramente assistenziali di redistribuzione del reddito da parte dello stato?

Occorrerebbe, a questo proposto, fare un excursus storico-politico sulle trasformazioni dello stato nel corso di questo secolo ed in particolar modo su come sia venuto meno il concetto di stato-nazione novecentesco e conseguentemente sul venir meno della funzione prioritaria dello stato "keynesiano": la creazione di domanda aggregata (consumi, lavoro, reddito ecc.).

In ogni dibattito televisivo, in ogni giornale di regime le dichiarazioni di politici, economisti, sociologi ecc. battono insistentemente su di un punto in particolare: solo le imprese possono creare lavoro ed il compito dello stato non può essere che quello di favorire gli insediamenti produttivi attraverso mezzi legislativi, infrastrutture e così via.

Lo stato (prima lo era in termini diversi), ed essenzialmente l'Unione Euopea, diventano strumento essenziale per lo sviluppo dell'economia occidentale all'interno di un contesto globalizzato: dal punto di vista delle politiche economiche (pensioni, sanità, contenimenti salariali, legislazione del mercato del lavoro...) siginifica smontare pezzo per pezzo, con gradualità, le basi del welfare che abbiamo fino ad ora conosciuto. Il nuovo welfare si andrà definendo per quello che teoricamente viene considerato un fattore rivoluzionario, ma che invece ha basi ideologiche profonde nel liberalismo ottocentesco e novecentesco di origine anglosassone: le uguali opportunità di partenza. Peccato, poi, scoprire o riscoprire che le condizioni di classe sono la base sulla quali pari o dispari opportunità si creano. Ma tant'è!

E cosa centra tutto questo con il reddito di cittadinanza?

Se il mio compito come stato è quello di favorire l'inserimento lavorativo nel nuovo contesto economico globalizzato attraverso la formazione permanente, le agenzie di lavoro, l'orientamento, i contratti agevolativi (apprendistato, cfl, contrattai d'area, l'allungamento età pensionabile ecc.) non è immaginabile che si possano adottare delle misure passive volte esclusivamente al sostegno del reddito senza ottenere in cambio nulla. In secondo luogo, come stato, avendo adottato una linea di forte contenimento salariale e di precarizzazione progressiva del mercato del lavoro non posso permettermi di mettere in concorrenza, al rialzo s'intende, disoccupati ed occupati.

Se, facciamo un esempio, io in quanto disoccupato ricevessi 1.500.000 lire mensili, sarei incentivato ad andare a lavorare, forse, per uno stipendio mensile di oltre due milioni. Questo significherebbe rivedere in toto tutta la politica salariale degli ultimi venti anni.

Altre sarebbero i temi da dibattere, ma questi due punti sembrano già abbastanza qualificanti per sostenere che giammai lo stato concederà un reddito di cittadinanza così come è stato pensato dal riformismo serio di questi tempi.

In che modo lo stato potrebbe pensare, e lo sta già facendo, ad una forma di reddito conseguente alle proprie politiche economiche e sociali di stampo liberale? Ovviamente all'interno delle politiche attive del lavoro, in primis come strumento erogabile a tempo e a fasce di popolazione sotto il livello minimo di sussistenza. Questo vuol dire reddito non universale. In secondo luogo, sufficientemente basso (500 o 600.000 mensili) da non poter essere concorrenziale con l'attuale mercato del lavoro. In terzo luogo vincolato a:

Prestazione lavorativa in cambio del reddito.

Obbligo di formazione non retribuito.

Accettazione incondizionata del posto di lavoro offerto pena la revoca del sussidio.

Molti stati europei, in testa l'Iinghilterra, stanno agendo in questo senso, ovvero vincolando i sussidi di disoccupazione all'accettazione del lavoro (che faccia schifo o meno che sia a tempo o meno questo non importa). Questo modello ha contribuito ad aumentare una serie di desaparecidos sociali che rifiutano qualsiasi contatto con centri di lavoro od assistenti sociali di vario tipo per il terrore di vedersi mancare le uniche risorse disponibili per campare. Il secondo effetto determinato da queste politiche è stato un aumento vertiginoso del lavoro nero come fonte di secondo reddito non dimostrabile: se questi venisse dichiarato, il sussidio verrebbe immediatamente revocato.

Battaglia improponibile?

Credo che, al di là della fattibilità, le questioni legate al reddito pongano comunque dei temi non eludibili: si tratta poi di vedere come verranno affrontati e proposti.

E' chiaro, infatti, che mentre quantità enormi di ricchezze vengono prodotte o tramite i mercati finanziari o tramite la creazione di eccezionali profitti legati alla produttività industriale e, allo stesso tempo, grandi masse di donne e di uomini ne vengono escluse, si pone la necessità di garantire a tutti i mezzi necessari per vivere e non sopravvivere.

Proprio per questo diventa impellente discutere le questioni del reddito in maniera ampia: non è rinviabile a tale proposito una battaglia che mi sembra più efficace in termini sia di realizzabilità che di tempo, ovvero quella sulla riduzione consistente dell'orario di lavoro (a parità di salario) come strumento per migliorare la qualità della vita di chi già lavora e di chi, ancora escluso, ne potrebbe usufruire in termini di reddito ed occupazionali.

Pietro Stara



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