![]() Da "Umanità Nova" n.34 del 31 ottobre 1999 Teatro. Dal mito alla metropoliil minotauro è un mostro il minotauro è il frutto marcio di un'unione moralmente inaccettabile. ogni società ha la sua morale. tutto ciò che va contro questa morale va distrutto. rinchiuso. il luogo deputato a questo compito può avere molti nomi. manicomio. galera. ghetto. non cambia nulla.
Così incomincia il volantino che viene consegnato all'ingresso dello spettacolo di teatro-musica Minotauro, allestito dal gruppo Biocide-Onice nell'ex lavanderia a vapore dell'ex manicomio di Collegno, luogo già di per sé simbolico e ricco di suggestioni. Uno spazio nudo, post-industriale, in una penombra tagliata all'improvviso da luci violente, dove i pochi spettatori ammessi per serata -che presto si accorgeranno di non essere tali- vengono fatti entrare uno alla volta e non trovano posto che in piedi, ai margini se non dentro lo spazio usato dagli attori, con una musica di sottofondo assordante, ripetitiva, angosciante. Si tratta di uno spettacolo sperimentale che, a differenza di altri, trova il modo di colpire a fondo, al di là delle facili e spesso fastidiose trasgressioni di maniera. E il mito del minotauro ben si presta ad una lettura molto attuale, nella quale lo spettatore è parte integrante: costretto a spostarsi in continuazione nel corso della rappresentazione, spesso con un angolo visuale ristretto ad un'unica parte, raggiunto alle spalle da attori che man mano costruiscono le scenografie -il labirinto- con materiali come metallo plastica e teli di nylon, disorientato, frastornato, magari anche spaventato da apparizioni improvvise di figuri seminudi, cosparsi di calce bagnata e urlanti. Ma pian piano il senso viene fuori, e non si può fare a meno di cogliere le forti reminescenze foucaultiane -del Foucault di Sorvegliare e punire- che aleggiano tutt'attorno. La molla della paura, che induce alla costruzione di un luogo di detenzione, di un luogo atto a rinchiudere il diverso -che così viene identificato con l'anormale- viene evidenziata in maniera inequivocabile. Avviene allora un rovesciamento: non è più l'anormalità a rendere necessaria la creazione del luogo di detenzione, ma il luogo stesso diventa letteralmente produttore di anormalità, in un processo di allargamento che man mano coinvolge tutta la società: i muri del carcere si espandono verso l'esterno fino a creare un labirinto all'interno del quale tutti ci troviamo persi. Il luogo di detenzione è il cuore pulsante di una società basata sul principio di esclusione, un vero e proprio paradigma il cui principio informa tutta un'architettura sociale autoritaria, dispotica: dal carcere al manicomio al ghetto alla fabbrica alla scuola ad ogni luogo che disciplina, che crea una norma -per non confrontarsi con una diversità che spaventa- e una legge -per mettere al bando chi a questa norma non si adatta. Ma chi esclude -ed è qui il senso profondo dello spettacolo- diviene egli stesso un escluso: il muro che limita la libertà dell'altro limita in realtà anche la propria. "Non potremo dirci veramente liberi fintanto che anche un solo uomo sarà schiavo": a qualcuno ricorda qualcosa? Rinaldo
|