Da "Umanità Nova" n.35 del 7 novembre 1999
Dibattito
...e dolce mi è naufragar in questo mare
Prosegue il dibattito
iniziato la settimana scorsa sulle trasformazioni sociali in atto, il mondo del
lavoro, le modalità di ridefinizione del potere statale e di quello
padronale a livello nazionale ed internazionale, le dinamiche della
globalizzazione e le forme del controllo politico, il dispotismo statale, la
guerra come paradigma delle relazioni tra singoli stati e tra stati e
società civile, tempi e modi della trasformazione sociale... Questi
temi, tra l'altro, sono all'ordine del giorno del prossimo Congresso della
FAI.
...e dolce mi è naufragar in questo mare
Le presenti note sono state stese sulla suggestione di alcuni punti
dell'articolato ordine del giorno del prossimo Convegno F.A.I. di Torino sul
lavoro. Si tratta di considerazioni di carattere abbastanza generale, di
variazioni sui temi sviluppati dagli interventi di Cosimo Scarinzi e
successivi.
Il modo di produzione capitalistico e alcune sue determinazioni
Naturalità, invisibilità, plasticità, turbolenza sono
tutte aggettivazioni che si attagliano al modo di produzione capitalistico e
che, in qualche modo, alludono alla sua natura di formazione economico-sociale
storicamente determinata, ma in processo. La "naturalità" è
appunto legata ad un divenire che ha escluso alternative rimaste in potenza
(rivoluzione) e ne ha annichilito altre allo stato larvale (processi
insurrezionali). L'invisibilità è nell'esserci, nel vivere -
anche nell'orizzonte temporale allargato della lotta di classe - i tempi
interni dello sviluppo capitalistico senza poter percepire i tempi
dell'alternanza delle formazioni economico-sociali se non come erudizione
storica. La plasticità è la capacità del modo di
produzione capitalistico di recuperare e di assoggettare al suo dominio i
relitti delle forme precedenti e i prodotti e sottoprodotti delle sue stesse
crisi. La turbolenza richiama la velocità accresciuta e crescente delle
trasformazioni, il metabolismo accelerato che può solo accelerare
ancora.
Se però le aggettivazioni diventano paradigmi, allora si perdono la
complessità e la contraddittorietà del processo e, al lato
opposto, le sue invarianze. Questo vale, de còté dell'ideologia
borghese, per la "naturalità" e la conseguente "fine della storia", de
l'autre còté, per la plasticità che alludono - in forme
diverse - all'invincibilità.
L'invincibilità del capitalismo è connessa più che al
fallimento delle rivoluzioni e all'impossibilità di mettere alla prova
su larga scala sistemi sociali ed economici altri rispetto al modo di
produzione capitalistico, al banalissimo fatto che tutto è prodotto del
capitalismo, proletariato compreso. Se si immagina la rivoluzione come
superamento dell'esistente, con la conservazione però delle ricchezze
prodotte e dei specifici modi materiali di produrle, allora, in un certo senso,
il capitalismo non avrà mai perso.
La "metabolicità" del capitalismo è un altro paradigma parziale
che potrebbe essere impiegato. Il metabolismo dell'uomo con la natura che
diventa da un lato consumo generalizzato non solo di prodotti (materia, lavoro)
ma anche degli strumenti della produzione e della riproduzione (ciclo
produzione-consumo), consumo come consunzione. Dall'altro lato e di converso,
produzione come iperfetazione a ricoprire la prima natura. Da entrambi i lati
si allude alla finitezza, spaziale e temporale del mondo capitalistico.
Crisi delle teorie critiche
Spesso si da per scontato che la pars destruens delle teorie critiche della
società capitalista sia una mera formalità, ovvero che essa sia
largamente condivisa in ambito "rivoluzionario". O quanto meno per quel che si
intende per "ambito rivoluzionario" oggi. La critica nei confronti dello Stato,
dell'istituzione, del rapporto tra l'ambito localistico e la dimensione
statuale, del concetto di federalismo, ecc. non è affatto patrimonio
comune per chi si richiama a critica radicale e "antagonista". A ben vedere non
è cos" nemmeno per la denuncia dei caratteri distruttivi del modo di
produzione capitalistico, la tentazione di voler vedere riemergere una natura
sostanzialmente progressiva del capitalismo si aggira e fa nuovi proseliti.
C'è poi, fondamentale, il problema del rapporto - nell'ambito di una
teoria critica del capitalismo e della sua possibile progettualità
generale - tra pars destruens e pars costruens. A chi spetta l'una? A chi
spetta l'altra? Qui si ripropone anche il classico problema delle forme
organizzative destinate a veicolare e a trasformare in prassi la teoria
rivoluzionaria. Siccome la storia insegna tutto e non insegna niente, spesso la
questione viene risolta ideologicamente ed aprioristicamente rispetto ai
movimenti reali. La latitanza di lotte generalizzate del proletariato di questa
fase, da un lato favorisce la tendenza alla ricerca della "ricetta giusta",
dell'elemento alchemico, dall'altro, paradossalmente sembra non favorire nuovi
momenti di riflessione sull'insufficienza di questa ottica.
Non siamo andati molto lontano. Da un lato la classica bipartizione
organizzazione specifica - organizzazione di massa (nella versione
vetero-bolscevica: partito-sindacato). Alla prima, covo delle minoranze agenti
(o avanguardie), viene assegnata la progettualità generale in toto, alla
seconda l'esserne il veicolo di trasmissione (parziale) su larga scala. La
crisi della forma-partito e il prevalere di forme organizzative di massa
apparentemente acefale non ha messo in discussione questo schema: la dirigenza
politica strutturata, titolare della progettualità generale, c'é,
seppur non dichiarata, o è nei desiderata dei gruppi dirigenti. Citiamo
come esempi alcune reti di centri sociali e, per altri versi, talune esperienze
del sindacalismo di base. A differenza del vecchio sindacalismo rivoluzionario
che si assumeva totalmente la progettualità generale, permane la
dicotomia politica e organizzativa.
Solo il progetto autogestionario sussume in sé pars destruens e pars
costruens ed anzi interpreta quest'ultima nel senso più esteso possibile
di prefigurazione di rapporti sociali ed economici non-capitalistici. Il
modello panautogestionario si colloca dunque all'opposto del modello
organizzazione minoranze rivoluzionarie (organizzazione specifica o partito).
Una "terza via" che attribuisca alle minoranze agenti un semplice ruolo di
elaborazione di una critica radicale dell'esistente e a movimenti di lotta
estesi la costruzione di forme organizzative innovative e la definizione di un
progetto rivoluzionario non sembra d'attualità nel dibattito politico
d'oggi. Ed è un peccato.
Crescita del lavoro industriale e della sua produttività negli ultimi
cinquanta anni e teorie sulla società postindustriale.
Il lavoro industriale è indubbiamente cresciuto negli ultimi anni su
scala planetaria. Aree nuove del mondo sono diventate il nocciolo duro della
produzione industriale e masse crescenti di popolazione si sono proletarizzate
nel senso classico del termine. Il cuore produttivo del vecchio mondo tuttavia
non ha abdicato e le metropoli capitalistiche continuano ad esercitare il loro
peso anche come epicentri del lavoro industriale. La globalizzazione - spesso
ed a sproposito citata come fattore determinante la deindustrializzazione
dell'occidente capitalistico, le perdita di centralità della produzione
e persino la fine del lavoro - risulta un fenomeno complesso che prelude (su
un periodo più o meno lungo) ad una potenziale omogeneizzazione delle
condizioni della working class.
La cosiddetta società post-industriale è tutt'altro che fondata
sul lavoro immateriale, nelle metropoli capitalistiche il lavoro produttivo
materiale dilaga anche in strati di popolazione che godevano di ammortizzatori
sociali (donne, studenti, giovanissimi) o nuovi (immigrati) con le
caratteristiche di lavoro nero ed ultraprecario. Il sospetto nei confronti dei
paladini del lavoro immateriale è che ad una sostanziale incomprensione
delle dinamiche sociali e produttive si sommi le sopravvalutazione strumentale
del proprio ruolo. Così gli esponenti della "intellettualità di
massa" e i membri di certi centri sociali sembrano chiedere prebende per il
proprio ruolo di "coscienza critica" di un sistema sociale sostanzialmente
"progressivo". Sarà comprensibile ma fa un po' schifo.
Tornando al lavoro vero si potrebbe dire che a fronte della crescita della
produttività media del lavoro industriale gli orari di lavoro (quelli di
fatto s'intende) non solo non sono diminuiti ma sono addirittura aumentati,
cos" come i ritmi della produzione. Ciò dimostra: primo, che
l'innovazione tecnologica non libera affatto (né potenzialmente) dalla
schiavitù del lavoro più duro; secondo, che la rottura dei nessi
produzione-occupazione e salario-produttività (se c'è, secondo
quanto sostiene Fumagalli) determina le condizioni peggiori e meno favorevoli
per rivendicazioni di massa.
Organizzazione del lavoro nei servizi e riproduzione sociale
E' del tutto visibile come il lavoro nei servizi cresca e si modelli sulla base
del lavoro industriale. E' una condizione necessaria alla riproduzione sociale.
Un po' meno chiaro è se questo sia un effetto della dissoluzione delle
relazioni sociali precapitalistiche. Le relazioni sociali e produttive
precapitalistiche sono, già da tempo, state inglobate all'interno del
modo di produzione capitalistico e del reticolo di rapporti sociali da questo
originato (sussunzione reale del lavoro al capitale). Siamo piuttosto in una
fase di ristrutturazione del Welfare che, da un lato, implica una
razionalizzazione dei servizi e, dall'altro, se non altro come tendenza, una
esternalizzazione di alcune loro funzioni (tramite privatizzazioni, appalti ed
altro). Questo è abbastanza chiaro per quanto riguarda l'assistenza
(privatizzazioni pensioni, assicurazioni, ecc.), il lavoro (interinali,
collocamenti privati) e la stessa formazione (finanziamenti scuole private,
formazione professionale, ecc.). C'è tuttavia un altro aspetto da
considerare, proprio sul terreno della riproduzione sociale della forza lavoro
crescono forme di neo-cooperativismo (terzo settore) orientate alla fornitura
di servizi che sono a mezza via tra l'essere un surrogato del Welfare e una
forma di "riformismo radicale" come quella a cui alludono i sostenitori del
reddito di cittadinanza. Si potrebbe dunque parlare di - più che di
dissoluzione - di un'integrazione accentuata di quei rapporti sociali pre e
protocapitalistici che spesso qualificano le nuove attività. Ancora a
proposito della riproduzione sociale della forza-lavoro, una parte di essa e
precisamente quella che si può connettere alla formazione viene in certi
casi risolta tramite l'apprendimento individuale. Valga per tutti l'esempio
dell'informatica o anche dell'apprendimento effettivo di una lingua straniera.
Quello che trionfalmente viene esibito come emblema del post-fordismo, il
sapere sociale diffuso a cui tutti contribuiscono con la produzione
"immateriale" (general intellect o nella versione più recente
brainpower) viene faticosamente costruito (a livello di contributo individuale)
con forme che non hanno nulla né di sociale, né di socializzante.
Il fatto che poi siano in qualche modo socializzate non né scalfisce la
primitività. Lo stesso vale per alcune attività produttive di
bassissimo profilo che l'incedere della crisi ha rispolverato.
Come tutto ciò possa coesistere con l'ipertecnologizzazione e con
l'applicazione del modello industriale a svariate attività produttive in
senso tradizionale e no, si spiega con quella plasticità del capitalismo
di cui parlavamo proprio all'inizio. E qui si chiude il limmerick.
Guido Barroero
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