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Da "Umanità Nova" n.35 del 7 novembre 1999

La libertà non si impone
Torino: mussulmani in corteo per il velo
Gli integralisti e lo Stato contro le donne

Erano circa 2000, provenienti da tutt'Italia gli immigrati mussulmani che hanno manifestato per le vie del centro cittadino a Torino. In stragrande maggioranza uomini seguiti da un piccolo drappello di donne più o meno coperte da fazzolettoni e foulard reclamavano il diritto ad avere documenti di identità in cui le donne mussulmane fossero ritratte con il capo e le orecchie coperti. In realtà un accordo in tal senso tra le comunità islamiche presenti in Italia e il governo del nostro paese è stato stretto sin dal '91: pare tuttavia che talune questure ed in particolare quella torinese abbiano negato il permesso di soggiorno ad alcune donne che avrebbero rifiutato di presentare foto senza il "velo".

Alcuni quotidiani hanno sottolineato come la questione dell'abbigliamento femminile finisse in secondo piano rispetto a temi che nei volantini, negli slogan, nelle dichiarazioni ai vari giornalisti venivano agitati: la richiesta di permessi di soggiorno anche per chi non ha lavoro stabile, le denuncia delle sopraffazioni della polizia, del razzismo più o meno esplicito delle istituzioni e di parte del corpo sociale, la rivendicazione di casa, lavoro, assistenza sanitaria, l'opposizione ai centri di detenzione per clandestini. Le questioni inerenti la vita concreta, materiale, i diritti negati, la difficoltà della vita quotidiana tendevano a prevalere sulla questione del "velo" per la quale la manifestazione era stata indetta e in virtù della quale ha suscitato l'interesse dei media e ottenuto l'onore delle prime pagine. Alcuni giornalisti adombravano persino il sospetto che la questione del velo fosse agitata in maniera puramente strumentale, solo per ottenere l'attenzione dei riflettori. Ma questa tesi è a mio avviso contraddetta dalla manifestazione stessa, che, pur attraversata da rivendicazioni molto laiche, è stata guidata da un imam e si è conclusa con cinquecento maschi inginocchiati e salmodianti in piazza Castello, nel centro di Torino. Il grido "dio è grande" la rivendicazione di un'identità islamica, che qui in Italia come in molti paesi mussulmani, si incide nei corpi e nella condizione delle donne, rappresenta in modo chiaro il tentativo della frazione più integralista delle organizzazioni di immigrati islamici di assumere la leadership politica all'interno delle comunità. Qui, come, ben più drammaticamente, in molti paesi mussulmani, la politica degli integralisti si gioca sul terreno della cultura, della famiglia, della rivendicazione del patriarcato. Questioni che vedono, per gli integralisti islamici non diversamente da quelli cristiani, le donne tra le principali vittime. Per questo la rivendicazione del "velo" è ben lungi dall'essere pretestuosa o secondaria.

Anche nel nostro paese si viene quindi affacciando una questione che ha attraversato molti dei paesi a noi vicini caratterizzati da una forte immigrazione da paesi mussulmani. In Francia lo scontro tra lo stato e le comunità mussulmane in merito alla proibizione ad indossare l'hidjab nelle aule scolastiche, divampato con violenza qualche anno fa, è oggi tutt'altro che sopito. Sappiamo come in Francia la destra e la sinistra, sia pure con motivazioni diverse si siano opposte all'adozione del costume mussulmano nelle aule scolastiche: per la destra quel che era in gioco era la laicità della scuola repubblicana ma anche la sua francesità, nonché la supremazia della tradizione cristiana; per la sinistra si trattava sempre di difendere la laicità della scuola ma anche di consentire l'integrazione scolastica alle figlie degli immigrati. Gli uni e gli altri, evidentemente, sia pure da punti di vista differenti ed anche forse talora divaricati, sono accomunati dalla volontà di negare la diversità culturale di cui l'immigrato è portatore. L'estrema sinistra e molte organizzazioni antirazziste si sono invece schierate a favore del diritto delle bambine a venire a scuola con l'hidjab. E' evidente che una tale questione ci pone di fronte, in quanto libertari ad una questione cui non è facile dare una risposta univoca. Sappiamo come l'imposizione dell'hidjab alle bambine ed alle donne rappresenti il più evidente segno esteriore dell'inferiorità sociale, politica ed economica delle donne, il marchio che ne segna la dipendenza da un universo patriarcale non di rado feroce nei confronti delle donne. Impossibile non pensare alla guerra di sterminio che tra l'indifferenza generale viene condotta in Afganistan nei confronti delle donne; difficile non ricordare che le principali vittime della ferocia degli integralisti algerini sono donne. Nondimeno risulta altrettanto difficile pensare che ben povera cosa è una libertà imposta dallo stato. Uno stato che obbliga le donne che vogliono un documento a spogliarsi non solo dell'hidjab ma anche, soprattutto, della loro dignità davanti ad un poliziotto. Arduo pensare che il difensore della libertà sia un funzionario di polizia non certo interessato alla libertà femminile ma solo a rendere il più efficiente possibile il proprio schedario.

Solo una cultura realmente laica, una cultura che sappia coniugare il rispetto per la diversità con la tenace difesa della libertà di tutti e di tutte può essere il terreno nel quale la libertà di scelta sia per ciascuno e per ciascuna un dato reale e non una finzione.

Nello stesso giorno in cui uomini mussulmani, guidati dalla loro guida religiosa, chiamavano libertà l'hidjab, per quelle che la commentatrice del T3 regionale ha chiamato le "loro" donne, il papa chiamava libertà il finanziamento che tutti dovrebbero dare alle scuole clericali.

Ben strane libertà quelle care ai preti di tutte le religioni.

Rosa Saponetta



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