Da "Umanità Nova" n.36 del 14 novembre 1999
Dibattito
Le rivoluzioni del capitale e la rivoluzione contro il capitale
Prosegue il dibattito sulle trasformazioni sociali in atto, il mondo del
lavoro, le modalità di ridefinizione del potere statale e di quello
padronale a livello nazionale ed internazionale, le dinamiche della
globalizzazione e le forme del controllo politico, il dispotismo statale, la
guerra come paradigma delle relazioni tra singoli stati e tra stati e
società civile, tempi e modi della trasformazione sociale... Questi
temi, tra l'altro, sono all'ordine del giorno del prossimo Congresso della
FAI.
1 Il modo di produzione capitalistico, la sua plasticità sociale e delle
sue interne rivoluzioni
La tradizione rivoluzionaria ottocentesca, che ha influenzato per molti versi
anche la sinistra antistituzionale del nostro secolo, poneva l'accento
sull'opposizione fra conservazione e progresso e vedeva nella borghesia una
classe sociale che, pur avendo avuto nel passato un ruolo rivoluzionario,
difendeva ormai un ordine sociale decadente al quale le classi subalterne si
opponevano in quanto portatrici della possibilità di un ordine sociale
superiore. Nelle sue forme estreme quest'orientamento portava ad un'attitudine
apologetica nei confronti dello sviluppo capitalistico ma anche nelle
componenti più avvertite del movimento operaio agiva la fiducia nel
fatto che la storia andava nella direzione della rivoluzione sociale.
L'incapacità del movimento operaio ad opporsi efficacemente alla prima
guerra mondiale, il fascismo e lo stalinismo sono stati una secca smentita di
ogni visione progressista della storia ed hanno reso necessario ripensare in
forme nuove la stessa questione della rivoluzione.
Non è questa la sede per sviluppare una riflessione sulla teoria
rivoluzionaria, ritengo però che sia necessario porre l'attenzione su
due caratteristiche del modo di produzione capitalistico:
- il suo carattere di relazione sociale in continua evoluzione. Ogni forma di
resistenza delle classi subalterne, ogni lotta, ogni comportamento
disfunzionale alla produzione non viene semplicemente repressi ma, accanto alla
repressione, vi è una capacità di adattamento e modificazione
dell'organizzazione del lavoro, delle tecnologie, della gerarchia aziendale.
Non vi sono, insomma, due eserciti schierati l'uno di fronte all'altro ma forze
che si modificano reciprocamente in maniera sovente inconsapevole;
- il fatto che si danno, quando una massa adeguata di modificazioni del
processo di produzione si è data, vi sono dei veri e propri salti di
paradigma, delle rivoluzioni interne al modo di produzione capitalistico
stesso. I lavoratori subalterni si trovano di fronte ad un'organizzazione
produttiva che incorpora le loro precedenti pressioni e che, per certi versi,
spiazza la loro azione e, soprattutto, la loro cultura politica e sindacale
tradizionale.
Considerazioni analoghe si possono fare per la macchina statale e per la
struttura sociale più generale.
2 Unificazione tendenziale del mercato mondiale
Il crollo del blocco a capitalismo di stato, che può essere
legittimamente considerato una forma di nazionalismo economico che si
pretendeva socialista, è un esempio, di straordinaria rilevanza, di
rivoluzione non, ovviamente, nel senso dell'affermazione di una società
senza classi ma, appunto, in quella di un processo di distruzione di un
segmento dell'economia mondiale e di rilancio dell'accumulazione capitalistica
su nuove basi.
L'universo sociale che si è affermato sulle macerie del blocco sovietico
ha i caratteri di una società postbellica senza che vi sia stata
effettivamente una guerra nel senso tradizionale del termine. L'integrazione di
quest'area produttiva nell'economia occidentale sembra determinare un'economia
mondiale unificata e quella situazione che molti definiscono globalizzazione.
Non va, comunque, sottovalutato il ruolo degli stati nazionali e dei blocchi di
stati nella definizione del mercato stesso. Vi è, infatti, una tensione
fra diverse esigenze delle classi dominanti:
- quella di garantirsi il massimo profitto possibile sostando i capitali
finanziari e le attività produttive sulla base del costo della forza
lavoro e della redditività degli investimenti;
- quella di mantenere forme di coesione sociale attraverso un'azione politica
dall'alto;
- quella di rendere non distruttive a livello globale le contraddizioni fra i
diversi gruppi di potere capitalistici e statali.
In altri termini, l'idea che siamo di fronte ad un capitalismo mondiale
unificato e che gli apparati statali non giochino alcun ruolo rilevante
è profondamente errata come dimostrano gli interventi militari che si
ripetono e le tensioni latenti fra potere imperiale statunitense e stati e
blocchi di stati che questo potere devono subire. Lo stesso mercato mondiale
è, in realtà, definito sulla base della capacità di
controllo politico dei diversi gruppi di potere.
3 La scomposizione della tradizionale struttura della forza lavoro
Il discorso dominante pone l'accento, da questo punto di vista, sugli effetti
dell'innovazione tecnologica. Saremmo di fronte ad una rivoluzione produttiva
basata sulla fine dell'organizzazione fordista del lavoro, della catena di
montaggio, del lavoro esecutivo e si starebbe affermando un modello produttivo
basato sulla partecipazione ed il coinvolgimento dei lavoratori. I lavoratori
produttivi stessi, oltre a diventare una quota modesta della popolazione,
sarebbero sempre più trasformati in collaboratori dell'azienda
cointeressati alle sue sorti.
A questa favola bella corrispondono fatti precisi alquanto diversi:
- il prolungarsi, su base mondiale, della durata della giornata lavorativa;
- l'accresciuta concorrenza fra segmenti della working class su base nazionale
ed internazionale con l'effetto di una riduzione secca del salario reale;
- l'abbandono delle politiche "sociali" da parte dei singoli stati nazionali a
fronte dell'insostenibilità, dal punto di vista capitalistico, dei loro
costi;
- un più stretto controllo sul lavoro salariato.
Dobbiamo, però, domandarci quali siano le trasformazioni sociali reali
sulla cui base il discorso dominante sembra trovare un fondamento. Molto
schematicamente, possiamo individuarne alcune.
- l'aumento del peso del capitale finanziario comporta l'accrescersi del numero
dei cittadini che entrano nel mercato azionario. Basta pensare, per quel che
riguarda l'Italia (uno dei paesi industriali meno caratterizzati dal peso della
Borsa), allo straordinario numero di persone che hanno acquistato azioni delle
grandi imprese statali privatizzate o semiprivatizzate. Si tratta, in
realtà, di una massa di acquirenti di piccole quantità di azioni,
nondimeno l'utopia del capitalismo popolare sembra realizzarsi;
- per quel che riguarda paesi come gli Stati Uniti, si parla già da
decenni, di un capitalismo dei Fondi Pensione riferendosi al fatto, appunto,
che i principali operatori sul mercato finanziario sono i Fondi Pensione
stessi. Si sarebbe, sempre secondo il discorso dominante, realizzata una
democratizzazione del capitalismo che sarebbe controllato dai lavoratori
attraverso i loro risparmi, forzati, investiti in azioni. Nella realtà,
questa destinazione del risparmio previdenziale lega le sorti di una quota del
salario all'andamento dell'economia capitalistica in maniera stretta e non vi
è, né vi potrebbe essere, alcun controllo sull'economia da parte
dei lavoratori nonostante i deliri a questo proposito di alcuni settori della
sinistra neoriformista;
- l'introduzione, per quel che riguarda l'organizzazione del lavoro nelle
grandi aziende, di forme di "partecipazione" dei lavoratori. Siamo di fronte ad
un classico esempio di rovesciamento ideologico dei dati di realtà: il
passaggio da classiche forme di controllo rigido sull'erogazione della forza
lavoro ad un controllo gestito in maniera flessibile e, in parte, imposto ai
lavoratori stessi viene presentato come il superamento del carattere dispotico
dell'organizzazione capitalistica del lavoro. Basta un minimo di inchiesta
sulle concrete condizioni di lavoro per rendersi conto che siamo di fronte ad
una pressione delle aziende per aumentare la produttività del lavoro e
che di questo fatto i lavoratori sono ragionevolmente coscienti anche se, di
norma, non sono, immediatamente, in grado di reagire in maniera efficace a
questa pressione;
- il decentramento produttivo vede una miriade di figure di lavoratori
apparentemente autonomi o, comunque, diversi dal tradizionale lavoratore
normato (membri di cooperative, lavoratori autonomi parasubordinati, lavoratori
interinali, precari, lavoratori a tempo determinato, lavoratori atipici,
lavoratori con contratti di formazione, lavoratori in nero ecc.). Questo
universo sociale vive problemi immediati parzialmente diversi da quelli che
affrontava la working class nei passati decenni. Basta, comunque, ricordare
che, fatte salve alcune eccezioni, si tratta di un segmento della forza lavoro
che vive condizioni di sfruttamento particolarmente dure e che, dal nostro
punto di vista, il problema immediato da affrontare non può che essere
quello di operare per l'unità dei lavoratori nella direzione di ottenere
condizioni omogenee al meglio di salario e di lavoro.
Su quest'ordine di questioni è, a mio parere, necessario approfondire il
confronto, soprattutto per quel che riguarda le proposte concrete di
intervento.
Cosimo Scarinzi
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