unlogopiccolo

Da "Umanità Nova" n.37 del 21 novembre 1999

Riflessioni sul militarismo, la guerra ed il mutare dei loro paradigmi nel corso del secolo
C'era una volta un reduce...

Il breve ciclo di iniziative a carattere antimilitarista che la Federazione Anarchica di Torino ha organizzato in questo periodo si è concluso venerdì 12 novembre scorso con la proiezione del film di Stanley Kubrick "Orizzonti di gloria". Nel dibattito che ha seguito la proiezione, insieme ad altre tematiche, è stata toccata di sfuggita quella dei reduci di guerra, forse a torto spesso trascurata. Le poche considerazioni che seguono vorrebbero provare a sistematizzare un minimo ciò che è venuto fuori durante la discussione relativamente a questo argomento, magari collocando anche il tutto in un contesto storico di mutamento dell'esercito e delle sue forme.

Da un lato è certamente vero che il reduce è per definizione un disadattato, costretto a vivere sulla propria pelle una sorta di rifiuto da parte della società circostante, e che spesso scopre di ritrovarsi in sintonia soltanto con altri che provengono da un'esperienza simile alla sua. Sempre per restare in ambito cinematografico, non si può fare a meno di pensare all'immensa produzione americana - quasi un'ossessione - del periodo post-Vietnam sul tema del reducismo: da film di valore come "Il cacciatore" ad altri decisamente più modesti come "Nato il 4 luglio". Nondimeno, dall'altro lato, il reduce è portatore privilegiato - volenti o nolenti - di un germe di ribellione che da sempre ha trasportato nella società civile. Infatti, se si pensa alle guerre anche solo di questo secolo, ci si accorge che quasi sempre esse sono state foriere di grandi rivolgimenti sociali, che essi abbiano avuto poi sbocchi reazionari o rivoluzionari.

Parlando dei salti di paradigma che la guerra come pratica ha conosciuto nel corso di questo secolo, spesso si considera il passaggio dalla prima alla seconda guerra mondiale come spartiacque obbligato tra una concezione tradizionale di guerra combattuta quasi esclusivamente tra eserciti ad un'altra che sempre più colpisce direttamente le società civili. Tenendo conto di quanto detto prima si può però individuare un altro discrimine non meno importante nella guerra del Vietnam per quanto riguarda l'impiego o meno di forze di terra, proprio in quanto direttamente produttrici di reduci, con tutto quanto ne consegue. Non è un caso che nei conflitti che hanno seguito la guerra del Vietnam la strategia principale dell'esercito statunitense - e con esso di tutti gli eserciti occidentali - sia consistita nell'evitare accuratamente, per quanto possibile, di impegolarsi in combattimenti di terra, come anche recentemente dimostrato in Kosovo.

Questo mutamento di strategia comporta chiaramente delle conseguenze, la prima delle quali riguarda senza dubbio la percezione stessa del concetto di guerra nella popolazione di almeno uno dei paesi belligeranti: per il cittadino medio americano durante la guerra del Golfo o per quello italiano durante quella recente nei Balcani, la guerra assume un aspetto molto più virtuale, anche in virtù del fatto che manca una figura tragica e problematica al contempo come quella del reduce (che poi è un familiare, un amico, o quantomeno un conoscente) a ricordargli quale sia il reale effetto di un conflitto armato. Ma un altro mutamento forse più sottilmente perverso riguarda proprio le recenti campagne per la professionalizzazione degli eserciti occidentali. Si è sempre detto che per fare il mercenario (perché di questo in fondo si tratta) ci vogliono incentivi economici molto al di sopra della media, considerato anche il rischio che comporta: ma in un tipo di guerra come quella combattuta recentemente contro la Serbia quanto rischia realmente un soldato nostrano? Ecco che la virtualizzazione dei conflitti e la pressoché totale certezza di non "lasciarci le penne" grazie a un apparato militar-tecnologico soverchiante, potrebbero rendere davvero appetibile un mestiere di merda come quello del militare di professione, anche al di là del mero dato economico, che pure ha indubbiamente la sua importanza. Difficilmente si poteva pensare di poter mandare a marcire nelle trincee della prima guerra mondiale un esercito di mercenari: là era senza dubbio più funzionale al sistema un esercito di leva, con tutto il suo meccanismo coattivo di rigida disciplina e brutale repressione del dissenso. Paradossalmente, invece, in un conflitto contemporaneo l'efficienza di un esercito passa anche attraverso l'accettazione della missione che si sta compiendo, e in questo senso l'invenzione di una categoria come quella della guerra umanitaria ha del geniale in quanto a scarico di coscienza. Il reduce, proprio in quanto coscienza critica della ragione guerrafondaia e sua esplicita denuncia, è difficilmente conciliabile con un sistema di questo tipo.

La questione dell'accettazione e condivisione dei fini riporta l'argomento guerra nell'alveo più ampio del capitalismo di questi anni. Se si considera il militare una professione come le altre - e da un punto di vista strettamente capitalistico è così - si può comprendere come la ristrutturazione degli eserciti occidentali (military reenginiring?) risponda a una logica non dissimile da quella che percorre il mondo del lavoro di questi anni, con l'applicazione di tutte quelle pratiche che complessivamente vanno sotto il nome di postfordismo. Tanto nell'impresa che nell'esercito postfordisti quello che viene a mancare, occultato da tutta la retorica sul coinvolgimento del lavoratore-soldato, non è assolutamente l'apparato gerarchico di controllo e repressione, quanto piuttosto la sua visibilità immediata. La guerra come pratica estrema di competizione è profondamente inscritta nel codice genetico del capitalismo. Ma come il capitalismo è in grado di correggersi continuamente e di fagocitare quanto non gli è funzionale, anche il militarismo ha questa perversa capacità. L'antimilitarismo, pena le sua stessa sopravvivenza, deve essere in grado di cogliere questi mutamenti in tempo e di inventare nuove forme di opposizione, collegandosi però ad un discorso più ampio di critica dell'esistente.

Rinaldo



Contenuti UNa storia in edicola archivio comunicati a-links


Redazione: fat@inrete.it Web: uenne@ecn.org