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Da "Umanità Nova" n.38 del 28 novembre 1999

Globalizzare il conflitto sociale

I francesi, che in campo linguistico sono notoriamente molto più nazionalisti di noi, ma che in questo caso forse colgono nel segno, preferiscono usare il termine mondializzazione, rifiutando una subalternità a tutte quelle categorie neoliberiste elaborate in ambito anglosassone che fanno da sfondo all'ideologia della globalizzazione. In effetti il termine globalizzazione, così com'è comunemente inteso, sa di allineamento supino sulle linee del neoliberismo trionfante. Comunque la si voglia chiamare si tratta di una categoria molto ambigua che finisce per dissimulare più di quanto non riveli, producendo il più delle volte un'acritica accettazione dell'esistente che raramente si interroga sul fatto che la globalizzazione non è come si vorrebbe far credere un processo naturale, insito nel corso delle cose, quanto piuttosto un'ideologia.

In una buona analisi già di qualche anno fa François Brune prova ad evidenziare quali sono i complessi ideologici che sottendono al termine globalizzazione. Innanzitutto indica il mito del progresso, la vera e propria paranoia della crescita, che tra l'altro genera una delle angosce tipiche del nostro tempo, ossia quella del ritardo. Collegato a questo mito è il primato indiscusso accordato alla tecnologia: peccato che le ragioni tecniche, con tutta la loro parvenza di neutralità, mascherino il più delle volte scelte politiche ben precise. Ma la vera novità di questi anni è probabilmente il dogma della comunicazione, con tutta quella serie di miti e di parole onnicomprensive che ne conseguono: quando si parla di globalizzazione non si può fare a meno, prima o poi, di imbattersi in termini come interconnessione, flussi, interattività e chi più ne ha più ne metta. Adagiandosi su questi vocaboli passe-partout è facile far intendere che la nostra epoca (la cosiddetta postmodernità, quando non addirittura fine della storia) sia un tempo di connessioni fluide, alle quali basta abbandonarsi per entrare in comunicazione rapida e indolore con tutto lo spettro dell'esistente: si ritiene che basti essere potenzialmente in contatto (magari attraverso i mass-media) per ritrovarsi realmente in relazione. Basta però interrogarsi un po' più a fondo su espressioni come ad esempio libera circolazione per rendersi conto che si tratta di enunciati tesi a occultare il fatto che la sempre più spiccata libera circolazione delle merci, del denaro e dei flussi finanziari si accompagna allo speculare impedimento a una libera circolazione delle persone (e delle idee non funzionali all'ideologia liberista).

Un'altra lettura della globalizzazione come libero sviluppo della concorrenza tra individui e gruppi, senza vincoli né laccioli (laissez faire, laissez passer) occulta il fatto che un'idea di società basata unicamente sul principio della concorrenza - anziché ad esempio su quello del solidarismo - conduce inevitabilmente a una spietata competizione: individuo contro individuo, nazione contro nazione, distretto contro distretto, etnia contro etnia. Quella che viene a perdersi in questo tipo di lettura è la più elementare nozione di conflitto di classe: così qualsiasi altro tipo di conflitto (generazionale, razziale, religioso, etnico, linguistico) viene portato generosamente alle luci della ribalta pur di mantenere in ombra quello che è il conflitto base di ogni società, ossia quello tra chi ha (potere, denaro, mezzi di comunicazione, ecc.) e chi non ha. Da un tipo di conflitto tendenzialmente emancipativo si passa ad un altro che si potrebbe definire corporativo: se la comunità sta mediamente bene allora anche ogni singolo individuo al suo interno sta bene (e non si può fare a meno di notare quanto sia funzionale a questo tipo di lettura l'utilizzo continuo da parte di politici e mass-media di categorie come il Pil medio o il reddito medio per leggere la realtà sociale circostante). In questo modo il fatto che esista un fossato tra ricchezza e povertà - e che anzi in questi ultimi anni si stia sempre maggiormente allargando - non viene assolutamente più messo in discussione ed è ormai vissuto come un fatto al limite increscioso ma assolutamente naturale e inevitabile, anche da tanta parte della cosiddetta sinistra.

La forza dell'apparato di potere attuale sta proprio nella sua capacità mediatica di presentarsi al mondo come naturale, anziché costruito. In realtà il nostro tempo è una costruzione scenografica costata anni di tenace lavoro ai think tanks neoliberisti, e organizzazioni come il Fondo Monetario, la Banca Mondiale, il parzialmente abortito AMI e tutta quell'accozzaglia di sigle difficilmente decifrabili (WTO, GATT, ecc.) e che per quanto possibile si mantengono nell'ombra non sono altro che gli strumenti che il potere si è dato per continuare ad esercitare indisturbato la sua supremazia. L'incontro che proprio in questi giorni si sta svolgendo a Seattle è un altro tassello all'interno di questa costruzione, e la poca mobilitazione che si produce ad esempio qui in Italia contro questa scadenza dimostra in maniera lampante la sostanziale incapacità di tanta parte della sinistra di contrastare l'attacco neoliberista che si sta verificando da circa un ventennio a questa parte.

Eppure in questi ultimi anni di analisi sul fenomeno globalizzazione ormai ne circolano a bizzeffe, e molte sono anche serie e approfondite. Il problema è che quasi sempre si limitano a una pur fondamentale critica dell'esistente e a un'enunciazione del problema, ma quasi mai sanno compiere quel salto di qualità che consiste nella proposizione di prassi di lotta realmente capaci di aggregare e di produrre socialità. Forse sarebbe necessario ripartire da uno dei capisaldi storici della sinistra ormai quasi caduto nel dimenticatoio, ossia da un sano internazionalismo. Letta con questi occhiali la globalizzazione potrebbe diventare un medium straordinario per diffondere idee e prassi di lotta: globalizzazione sì, ma del conflitto! Con tutta la modestia del caso sarebbe il caso di prendere spunto da una pratica che il capitalismo ha imparato a menadito, e cioè quella di prendere le categorie e le parole della sinistra e di rivoltargliele contro. Prendiamo un termine chiave come flessibilità, rimedio taumaturgico sbandierato continuamente da ogni liberista che si rispetti come panacea per tutti i mali: ma è mai possibile che ci si ritrovi a dover difendere la rigidità del lavoro salariato, quando solo una ventina d'anni fa si era arrivati a una radicale critica del lavoro, che pur con tutte le sue ingenuità aveva saputo intravedere non tanto la fine del lavoro (di cui tanto si blatera oggi, spesso a sproposito) quanto piuttosto una diversa società all'interno della quale il lavoro non occupasse più un posto centrale nella costruzione di identità degli individui? Sembra quasi che non ci si voglia rendere conto di quello che è uno degli effetti principali della globalizzazione sul mondo del lavoro, ossia l'ipersfruttamento da un lato (incremento delle ore lavorate, dei carichi produttivi, dello stress accumulato sul posto di lavoro) e la disoccupazione e l'esclusione dall'altro; oppure che si ritengano queste conseguenze inevitabili e non si possa fare altro che allinearsi al ribasso anziché provare a mutare il corso delle cose (tra l'altro bisognerebbe chiedersi come mai una battaglia centrale come quella sulla riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario produca così poca aggregazione nel corpo sociale).

Anche riguardo ad altre tematiche, come ad esempio la giustizia, troppo spesso la sinistra nostrana mostra la sua irrimediabile subalternità al modello dominante lasciandosi trascinare da una deriva reazionaria e giustizialista (a proposito: com'è invece che il garantismo pare essere diventato prerogativa della destra?). Per finirla con gli esempi: come si fa a lasciare in mano alla destra, che giustamente ci sguazza, una battaglia come quella fiscale? Di fatto la sinistra (quella che ancora si può considerare tale) si ritrova il più delle volte a condurre lotte puramente resistenziali, che hanno sicuramente una loro importanza, ma che producono un'inevitabile attitudine all'immobilismo. In questo senso la parabola di una forza politica come Rifondazione Comunista è sintomatica: a forza di pensarsi unicamente come diga contro la marea montante della restaurazione ci si ritrova, una volta che l'onda della reazione è passata, a non trovare più il bandolo della matassa e a rischiare tout-court l'estinzione. É necessario invece riappropriarsi di una dimensione conflittuale della politica che sappia proporre una diversa e opposta lettura dei fenomeni rispetto al modello dominante, quella dimensione conflittuale che la sinistra istituzionale - con tutta la sua cattiva coscienza tesa ad un'impossibile conciliazione - ha ormai bellamente scordato.

Rinaldo



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