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Da "Umanità Nova" n.39 del 5 dicembre 1999
Dossier Strage di Stato:
30 anni di una storia mai conclusa. Lo Stato delle bombe
Se l'Italia fosse un paese dalle istituzioni "normali", come pure ci vorrebbe far credere D'Alema, la strage di stato del 12 dicembre 1969 oggi sarebbe un ricordo triste e una ferita aperta nelle carni dei morti e delle loro famiglie, tra cui quella, colpevolmente dimenticata, di Pinelli. E invece a trent'anni esatti, siamo doverosamente costretti a tenere le luci accese per prevenire l'oblio della memoria che indurrebbe nelle incolpevoli generazioni più giovani l'indistinzione dei ruoli e delle
responsabilità dei carnefici.
Sostanzialmente, la verità storica è nota, e dopo trent'anni non
dovrebbe più far paura poiché sono caduti - almeno così si
dice - i vincoli da guerra fredda che limitavano la sovranità della
repubblica italiana alla mercé di padroni/padrini oltreoceano (la Casa
Bianca attraverso i servizi segreti militari, forse più della CIA).
Tuttavia, la verità giudiziaria, pur non potendo incastrare nessuno per
via della prescrizione dei reati a carico degli uomini dello stato (pedine di
un gioco ordito al di sopra di loro), ma potendo chiamare per nome e per
cognome i responsabili materiali e delineare la cornice nella quale si sono
mossi i mandanti, stenta a dirsi in quanto simbolicamente sarebbe la
confessione di colpa di una intera élite politica, nostrana e alleata,
ancora oggi nonostante una lunga stagione di sangue e di lutti in cui i
politici di ieri ancora in vita hanno operato coperture, complicità,
omissioni, depistaggi. Ustica ne è l'emblema e tra pochi mesi saranno -
appena - vent'anni.
Oggi che si riaprono i processi (Calabresi) e dossier più o meno
inquinati (Mitrokhin) in cui sembrano dover rispuntare le ombre di ciò
che si è stato rimosso, con puntuale ripetizione di polveroni che
acuiscono la sensazione di incomprensibilità bizantina mista a senso di
onnipotenza irresponsabile dello stato, ebbene nulla emerge da qualche archivio
supernascosto dell'assassinio di Pinelli, fatto certo e indubitabile
(nonostante il giudice D'Ambrosio, attuale Procuratore capo di Milano e
"benemerito" per aver coordinato il pool di tangentopoli) che assegnerebbe
incontrovertibili responsabilità a personaggi più o meno
scomparsi dalla storia (ma non dalla memoria): da Calabresi al questore Guida,
già fascista di primo ordine nel Ventennio e amnistiato da Togliatti
nell'immediata riconciliazione post-resistenziale.
Il movimento anarchico crebbe sulla strage acquisendo forze generazionali
fresche e appassionate. Tuttavia crebbe sull'onda sdegnata di un attacco
preventivo e, insieme, repressivo letteralmente micidiale - mai tanta ferocia
nella storia delle democrazie europee; e negli USA il potere divorava i suoi
simboli (Martin Luther King, i Kennedy) mentre si scagliava contro minoranze
razziali - che ebbe la ventura di forgiare il movimento in senso reagente
rispetto alla carica sperimentale e utopica che dovrebbe caratterizzare il
momento affermativo dell'anarchia in azione.
Dopo trent'anni, questo secondo, complementare e indispensabile aspetto di un
movimento maturo è ancora da acquisire con compiutezza di coscienza e
lucidità di lettura del presente da aggredire con ironia spiazzante di
una cultura altra da esperire nel qui ed ora impegnando corpi e menti in una
graduale diserzione dalla società, dai suoi valori di inciviltà,
dalle sue forme di aggregazione, sperimentando l'utopia a partire da una
conflittualità aggirante che parta dalle nostre aspirazioni, dai nostri
desideri, dalle nostre urgenze di felicità e di libertà nelle
differenze.
Salvo Vaccaro
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