![]() Da "Umanità Nova" n.39 del 5 dicembre 1999 Dibattito
"Perdere la vita a guadagnarla"
Premessa. Dovendo intervenire in merito al dibattito pre-congressuale, confesso da subito la difficoltà nell'affrontare questioni che pretendono di spiegare le relazioni sociali dominanti, la loro evoluzione e le forme di opposizione che in questo periodo si sviluppano. Innanzitutto perché faticoso è cogliere il nocciolo dal quale dar vita ad una riflessione non astrusa, difficile da capire in quanto troppo sottile; in seconda battuta, perché - e gli interventi che mi hanno fin qua preceduto sembrano attestarlo - l'ostacolo oltre che analitico è soprattutto prospettico. Insomma non si comprende dove si vuole andare nonostante si senta il bisogno di muoversi, e soprattutto di uscire dalla palude che soffoca e impantana l'agire sociale. Per questo motivo il mio intervento é volto semplicemente ad aggiungere alle precedenti riflessioni il senso del non-senso che caratterizza - a mio avviso - la vita quotidiana in rapporto alla sua valorizzazione dettata dal lavoro, inteso non soltanto come modo di produzione e riproduzione dell'ordine sociale capitalistico attraverso il valore economico della merce come unico parametro significativo, ma il lavoro in quanto produzione del valore ideologico della personalità dell'essere, in netto contrasto con l'individualità dell'essere che é in sé e per sé valore (quindi senso) a prescindere dalla necessità di prodursi e riprodursi mediante il lavoro. Non si tratta, sia ben chiaro, di un'ennesima riproposizione della teoria del "rifiuto del lavoro", ma è il tentativo (peraltro, qui, soltanto abbozzato) di iniziare a capire perché la vita senza il lavoro non sembra essere in grado di produrre valore, di avere senso. In tal modo apparirà forse, sotto una nuova veste, il fatto che, se é cambiato - e sta cambiando in termini di tempo e di spazio - il lavoro nella vita, è perché la vita è diventata un lavoro. (1)
Chi mi ha preceduto ha giustamente sottolineato quanto false appaiono le teorie secondo cui il lavoro, nelle presente realtà storica determinata da precisi rapporti di produzione capitalista, sembra esser divenuto inessenziale al punto da sostenerne la "fine". Infatti, non solo la rivoluzione tecnologica non ha determinato la scomparsa del lavoro-vivo quale fattore determinante il plus-valore del capitale, ma ha imposto un aumento della sua capacità produttiva sia in termini di unità lavorative, sia in termini di un aumento di tempo per singola unità. L'avvento di una società di lavoratori senza lavoro appare sempre più una leggenda diffusa ad arte per propagandare uno stato di crisi, registrato da un costante aumento della disoccupazione che - ben sappiamo - nasconde una situazione di sotto-occupazione, ossia forme occupazionali non tanto determinate da nuovi mestieri, quanto piuttosto da antiche pratiche di sfruttamento. Sicuramente l'apporto del capitale finanziario ha assunto aspetti più cospicui nella produzione dell'interesse economico, ma il maggior profitto è pur sempre offerto da un maggior sfruttamento della manodopera. Altrimenti non si capirebbe come mai l'imperante filosofia neo-liberista si arrocca attorno all'obbiettivo di una riduzione del costo del lavoro, giocato soprattutto sul concetto di flessibilità e sulla ridefinizione dei rapporti fra pubblico e privato proprio a partire dall'organizzazione del lavoro attraverso la sua gestione ottimale. Il lavoro, quindi, non è scomparso né nella sua forma di produzione industriale, né tanto meno nella sua forma di riproduzione sociale. Anzi, il lavoro non solo è aumentato nel tempo occupato, ma si è diffuso anche nel tempo libero: (sarebbe più corretto definirlo tempo disoccupato) vale a dire si è esteso alla vita nella misura in cui ne determina - sempre più - il valore stesso della sopravvivenza come produzione di sé in quanto merce-Ego da arricchire in continuazione di personalità, scegliendo fra i diversi "modelli" presenti sul catalogo del "Fatti da te". Proprio quest'ultimo aspetto ci consente di comprendere la trasformazione sociale in atto, che non si manifesta soltanto come rivoluzione all'interno dei modi di produzione, ma anche e soprattutto come rivoluzione del rapporto fra il tempo della vita dedicato alla valorizzazione di sé come merce nel lavoro per sopravvivere in quanto cosa fra cose, e il tempo della vita dedicato alla valorizzazione di sé come persona nel lavoro per crearsi una personalità fra le tante identiche ed intercambiabili. In questa prospettiva ognuno diviene l'imprenditore della propria valorizzazione fittizia, invitato non più soltanto a consumarsi nel lavoro per avere delle cose, ma a lavorare nel consumo per inventarsi un'immagine al fine di apparire figura fra le figure dello spettacolo sociale.
(2)
Lo spostamento della valorizzazione dalla produzione quantitativa di merci alla produzione quantizzata di valore-vita é il "salto di paradigma" che il capitalismo ha attuato al fine di risolvere - inglobandola - la crisi di senso ormai palese di uno sviluppo economico votato alla distruzione e all'annientamento del Pianeta a seguito della spoliazione, del degrado e dell'impoverimento dell'umanità sia in termini economici, così come ecologici e biologici. Cosicché, poiché la produzione di merci-cose é ormai incapace di nascondere il grado di decomposizione biologica di cui è testimonianza mortalmente suicida, spetta ormai alla produzione di merci-persone legittimare e giustificare il sistema capitalistico come l'unico sistema di società umana possibile, in cui "l'immagine di sé"- prodotta all'interno di un realtà-mondo in gran parte manipolata - appare sempre più un artefatto. La conseguenza é una perdita di sé come soggetto che ha un effetto immediatamente pratico sia sul piano dell'organizzazione capitalista del lavoro, sia dal punto prospettico di una possibile e auspicabile rivoluzione. Infatti, scompare l'alterità che sussisteva un tempo tra il lavoratore e il lavoro dal momento che l'attività lavorativa era un momento della vita e (ad esclusioni di alcuni casi clinici di alienazione coatta) l'identificazione di sé con il lavoro era perlopiù rimandata ad un futuro, quando o il lavoro sarebbe stato libero, oppure ci si sarebbe liberati tout-court dal lavoro. Ora, essendo l'immagine di sé un lavoro necessario al fine di apparire figura fra figure, il lavoratore non si identifica certo con la merce prodotta perché lui stesso é lavoro autoproducentesi in quanto lavoro-di-se. In questo contesto l'ipotesi di un "mondo diverso" si scontra con il fatto che difficile è pensarlo diverso da sé. La crisi di un immaginario rivoluzionario in grado di prospettare anche solo ideologicamente una società non più fondata su valori capitalistici, nasce proprio perché il lavoro è la vita che si dà nella società dove ogni individuo si nega come soggetto diverso dalla personalità che lui stesso ha prodotto. Se dunque è vero che il proletariato è una classe del capitale, poiché sono i rapporti di produzione capitalistici che lo definiscono tale - al punto che la coscienza di sé è il processo che prefigura in fieri una società senza classi (quindi senza proletariato) - in una realtà in cui ognuno appare come imprenditore della propria personalità, il capitalismo si è definitivamente antropomorfizzato divenendo in tal modo naturalità dell'essere.
(3)
L'immagine di sé non riflette l'individuo in quanto essere, ma il capitale accumulato attraverso il lavoro-di-sé: la personalità. Per questo il suo riflesso nello specchio è opaco, vuoto, insensato. E' un corpo artefatto che necessita continue iniezioni di "silicone" per raffigurarsi il più naturale possibile. Senonché questa corsa senza fine per sembrare ciò che non si é, estende a dismisura l'insofferenza di ciò che si ha. La crisi dei valori si sta manifestando sempre più come perdita progressiva di senso da attribuire alla vita al di fuori del lavoro, dal momento che oltre a lavorare per vivere, vivere é un lavoro al punto che si può anche non avere temporaneamente un lavoro e riuscire ugualmente a sopravvivere, ma é impossibile non-esserci, non essere visibile in una realtà-mondo in cui lo scambio avviene unicamente attraverso la produzione (il lavoro) di immagini di sé. Ciò ha senso non in modo astratto, ma concreto e verificabile nell'osservare quanto il tempo di lavoro si sia dilatato divenendo non più un intervallo nella vita quotidiana - essendo il lavoro una cosa certa, fissa e durevole per sempre (il posto di lavoro a tempo indeterminato) -, ma la stessa vita quotidiana è ormai diventata un intervallo fra un lavoro e il successivo. "Mettersi sul mercato", "sapersi vendere", significa lavorare per riuscire a fare una bella figura. Che poi questo serva per ottenere un lavoro a tempo determinato (sei, dieci mesi o un paio d'anni poco importa), di basso o alto profilo tecnologico, conferma quanto importante non sia tanto il tipo di lavoro svolto (costantemente in diminuzione), quanto il modo in cui si lavora, necessario - più che alla produzione di merci - alla assimilazione delle regole del lavoro (la precarietà, la flessibilità, l'innovazione di sé) nella vita quotidiana. Infatti, ciò che conta é il rispetto delle regole - la propria presenza nelle regole -, osservandone i valori che uniformano la propria vita ad una qualsiasi merce prodotta dal capitale. Regole rassicuranti contro la passione di vivere oltre il lavoro! Ma è pur vero che la passione di vivere repressa dalle regole del lavoro è destinata - prima o poi - ad esplodere, agendo come soggetto rivoluzionario che rivendica il desiderio di essere comunità, appartenenza ad un progetto, che - sebbene tuttora impreciso - non tarderà a manifestarsi. Perché il desiderio di essere é senza fine, e non può essere sconfitto. Benjamin Atman
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