![]() Da "Umanità Nova" n.40 del 12 dicembre 1999 Derive senza Approdi
Chi si mette in cammino e sbaglia strada,
Da tempo su queste pagine andiamo segnalando, in compagnia di buona parte della sinistra di classe, le derive neo-riformiste che da qualche anno caratterizzano il percorso politico dell'area della ex-Autonomia e di quei settori dei centri sociali che si riconoscono nella cosiddetta "Carta di Milano"; un'ulteriore fase di questo processo filo-istituzionale è rappresentato da un documento titolato "Ma che te lo dico fare", recentemente pubblicato sul numero 18 della rivista "Derive e Approdi". Molto ci sarebbe da dire in merito, a partire dal tono pretenzioso e dal linguaggio alquanto trendy, e sarebbe auspicabile che anche altri se ne occupassero; ma alcune questioni di carattere generale vanno senz'altro segnalate perché ci possono permettere di riflettere su alcune tendenze in atto e con cui dobbiamo purtroppo fare i conti. Innanzittutto va osservato come anche quest'area politica che in qualche modo non intende rinunciare ad apparire come "alternativa", non rifugga dal vezzo ormai alquanto in voga (vedi il caso emblematico della Bonino liberale-liberista-libertaria) di affermare delle idee o di costruirsi un'identitý, sfruttando coperture di comodo del tutto improprie. Questo è il caso, riferendoci al documento citato, delle allusioni maliziose e dei vari richiami ad esperienze della lotta di classe e del sindacalismo rivoluzionario, quali l'IWW americano o la CNT spagnola, contando forse sulla perdita della memoria storica onde evitare "insane" curiositý sulle pratiche e le idee sovversive che queste esperienze hanno realmente rappresentato. D'altra parte una simile operazione politica era giý avvenuta attraverso la mitizzazione e l'utilizzo strumentale della rivolta neo-zapatista del Chiapas per affermare formule politiche distanti da Zapata almeno quanto la Pianura Padana è lontana dalla Selva Lacandona; basti pensare che mentre l'EZLN occupava in armi i municipi e con l'astensionismo delegittimava il governo, qua nel "nostro" Nord Est c'è stato chi ha sostenuto che bisognava "fare come in Chiapas" presentandosi candidato sindaco, appoggiando il progetto di riforma federale dello Stato sostenuto dal partito di Cacciari e regalando voti al centro-sinistra di D'Alema, dimenticando tra l'altro la sua stretta di mano al presidente Zedijllo. Ma se la questa è la "forma", la sostanza del documento conferma la tesi secondo cui, poiché cosette come comunismo, classe operaia e rivoluzione sono state sepolte dalle macerie del post-fordismo, bisogna battere strade nuove e puntare su altri soggetti legati al "lavoro immateriale" o al "terzo settore", col dichiarato obiettivo di una "riforma conflittuale del walfare" in grado - dati i tempi che corrono - di far impallidire qualsiasi utopista. Ipotesi questa che in veritý di post-moderno ha ben poco, avendola giý vista e sperimentata in passato, da Turati a Berlinguer, secondo la solita litania socialdemocratica: poiché la rivoluzione è pericolosa o inattuabile, l'unica possibile alternativa "realistica" rimane quella della convivenza, più o meno conflittuale o parassitaria, con il capitalismo e lo Stato. E qui ci sarebbe da rabbrividire: "A volte ritornano" davvero. Non solo infatti vediamo l'interclassismo soppiantare l'operaismo con astrazioni come quella della "societý civile, quando ancora ci sono operai in carne ed ossa col loro salario da fame; ma simile teorizzazione ci ripropone invariata, magari celata da una tuta bianca o da uno scenario di guerriglia più o meno simulata, la tradizione del riformismo, ossia l'illusione storica di poter modificare questa societý dall'interno del contesto politico-economico definito dal quel dominio che proprio gli operaisti ritenevano fino a poco tempo fa non riformabile e quindi da sabotare e sostituire attraverso lo sviluppo del "contropotere" proletario. CosÏ, dopo aver festeggiato la presunta morte delle ideologie, ci ritroviamo (povero Lenin...) 10 passi indietro, felici e contenti di aver finalmente scoperto quello che l'ideologia borghese da oltre un secolo andava invano sostenendo, e per di più con la convinzione di esserci liberati da inutili fardelli teorici ed aver trovato la formula magica per cambiare il mondo.
Il modello americano Il nuovo modo di intendere la politica "antagonista" (a cosa?) secondo questa area che aspira ad essere riconosciuta come la "sinistra della societý civile", ricalca peraltro la forma assunta negli ultimi decenni dalla sinistra liberal negli Stati Uniti che, in sostanza, assolve ad una funzione di partecipazione democratica nei confronti delle istituzioni, promuovendo momenti di sensibilizzazione e mobilitazione dell'opinione pubblica attorno a singoli temi (il razzismo, l'ambiente, l'emarginazione, etc.), attraverso la costituzione di gruppi di affinitý specifici, più o meno militanti, con un modello organizzativo soft e la presenza centrale di un portavoce-leader. Questo genere di struttura"tematica" compare e interviene in situazioni di"crisi" la cui emergenza è innanzittutto stabilita dai media e tende ad esaurirsi con la stessa velocitý con cui certi problemi scompaiono dalle pagine dei giornali edagli schermi televisivi. Esempio. Scoppia lo scandalo della polizia violenta, riempiendo le cronache dell'informazione, e subito nasce e si attiva l'associazione o il comitato che dý voce alla protesta civile, reclamando il rispetto dei diritti e mediando tra societý reale e potere costituito; appena i media e i politici perdono interesse per la questione, i gruppi mobilitatisi si sciolgono e le persone che ne avevano fatto parte sono pronte a riciclarsi, sotto un'altra sigla, per la prossima occasione (una guerra, la pena di morte, l'AIDS, la deforestazione, etc.). A questo tipo di strutture temporanee della cosiddetta "societý civile" se ne affiancano altre più stabili che, attraverso il volontariato e il no-profit, svolgono servizi che il"walfare state" non garantisce più, specie alle fasce più marginali della popolazione, integrando perfettamente la politica sociale del governo e contribuendo in modo significativo alla governabilitý e al mantenimento della pace sociale; per cui - e qui sta il paradosso - un certo modo di intendere la resistenza al neo-liberismo si rivela nei fatti del tutto funzionale ad esso. Fatte le debite differenze, è facile rendersi conto che in Italia stiamo assistendo proprio alla replica di questo modello e, chi avesse dubiti a riguardo, puÚ leggersi "Carta", il periodico dei Cantieri Sociali.
Senza memoria, non c'è futuro In quest'epoca che qualcuno ha definito dell'effimero, anche l'opposizione sociale ha bisogno invece di strutture organizzate e durature, in grado di mettere radicalmente e globalmente in discussione il sistema politico ed economico, perché come scrisse André Breton, "Solo una cosa puÚ permetterci di uscire, almeno momentaneamente, da questa spaventosa gabbia in cui ci dibattiamo e questo qualcosa è la rivoluzione". E da questo punto di vista anche le passate esperienze dell'IWW o della CNT (cosÏ come, per certi versi, quella dell'Autonomia Operaia degli anni '70) possono ancora tornare utili, se si comprende che la loro dirompente importanza sovversiva è stata quella di aver realizzato diverse forme di organizzazione sociale, alternative quanto contrapposte a quella dominante, e non sussidiarie o compatibili con essa. Per questo, oggi che le strategie per il controllo sociale e la repressione dei conflitti stanno raggiungendo livelli scientifici di pianificazione tali da integrare pienamente alcune forme di autogoverno e legittimare spazi di libertý vigilata, è ancor più necessario stare attenti a non sbagliare strada. Da una parte c'è l'illusione riformista di poter gradualmente trasformare in modo sostanziale questa societý, sviluppandola partecipazione degli oppressi e degli sfruttati alla politica democratica, dando credibilitý a quel meccanismo di complicitý che è il voto elettorale ed offrendosi come co-gestori critici di un sistema di potere che invece è fatto per funzionare male, produrre disuguaglianze e garantire libertý solo a chi accetta le sue leggi, partecipa ai suoi spettacoli e compra le sue merci. Dall'altra, se si ritiene che non puÚ esserci liberazione sociale senza rivoluzione, per costruirla l'unica strada possibile che abbiamo, per quanto incerta e ricca di insidie, è ancora quella dell'organizzazione autonoma di classe, dell'azione diretta, del metodo federalista, dell'autogestione generalizzata ed estesa a tutti gli aspetti della vita, FUORI e quindi inevitabilmente CONTRO quelle istituzioni che al contrario hanno come loro funzione specifica il controllo e il governo SULLA societý, dal Parlamento europeo al Consiglio di circoscrizione di un quartiere; nella consapevolezza sovversiva che qualsiasi sindaco - anche il più affidabile e di sinistra - è la negazione stessa dell'autogestione sociale in quanto, come avvertiva il vecchio Bakunin, "non sono gli uomini a fare le posizioni, ma le posizioni a fare gli uomini". KAS.
|
Redazione: fat@inrete.it
Web: uenne@ecn.org