unlogopiccolo

Da "Umanità Nova" n.41 del 19 dicembre 1999

La dolce ala della giovinezza

"... si ritrasse, lievemente, da noi e ci lasciò, indifesi, a sopportare ogni oltraggio"

Bilancio di fine millennio alle porte, secondo un certo sentire comune. Bilancio di fine secolo, di questo secolo e delle "forme" di vita (ivi comprese le nostre) che ne hanno popolato l'ultimo spezzone, potremmo contrapporre.

Un secolo pesante, quello delle guerre mondiali imperialiste, delle crisi economiche devastanti, del capitalismo che si è dispiegato a livello planetario, dei continui sconvolgimenti e riassetti dell'ordine mondiale, ecc., ecc.. Ma anche secolo dei generosi tentativi rivoluzionari, dei grandi movimenti di massa del proletariato internazionale, delle lotte della classe operaia per conquistare condizioni di vita congruenti col forsennato sviluppo capitalistico. Ancora, e su un altro piano, secolo delle grandi ideologie, delle architetture sociali e politiche, delle teorie rivoluzionarie. Infine, per noi - militanti di mezz'età, il secolo diviso, spartito fra un cinquantennio evocato, studiato, mitizzato e un cinquantennio vissuto e, quando se ne è dato il caso, agito.

Buffa faccenda questa dei secoli e dei millenni, una ripartizione temporale arbitraria fondata, dalla cultura egemone, sull'ipotetica data di nascita del figlio di un falegname della Palestina che coinvolge anche le intelligenze più libere e laiche in ansie millennaristiche.

Ma torniamo al nostro secolo, che per quanto ci riguarda potrebbe essere già finito o perdurare ancora per non si sa quanto. Una prima metà consegnata alla storia e dunque agli studi, alle riflessioni ed ai bilanci; una seconda metà, vissuta - tutta o in parte, non importa - e dunque schiacciata e deformata dalla vicinanza temporale e dall'intreccio con le nostre storie individuali. Ostica dunque, se non alla riflessione, quantomeno ai bilanci.

Ma anche qui, che senso ha parlare di bilanci? Un bilancio è roba da libri mastri, da imprese, da economia borghese o contabilità domestica, scegliete quel che vi pare. Un bilancio è la nuda partita doppia dei guadagni e delle spese, dei profitti e delle perdite, dei morti in una guerra e di ciò che si è conquistato, e così via. E' possibile un bilancio delle lotte di classe? Delle battaglie vinte e di quelle perse? Dalla sconfitta più dura si possono trarre insegnamenti e porre dei punti fermi per una ripresa; nella vittoria più schiacciante c'è un condensato di errori di segno opposto che si elidono nelle conseguenze, c'è il caso più fortuito che svilisce ogni strategia, ci sono, insomma, i germi delle future disfatte. La storia è una severa maestra, ma qualcosa pur insegna. E poi sul piano personale, della militanza politica o sindacale, dell'impegno sociale, che bilancio è possibile? Il conto delle perdite e dei guadagni non può che essere in rosso. L'entusiasmo degli anni '70, i movimenti, le lotte, l'assalto al cielo, ma anche la consapevolezza della necessità di ricostruzione di una teoria critica radicale, di un ambito progettuale, di una organizzazione libertaria e rivoluzionaria; ma, ancora, anche l'inadeguatezza, gli errori, le derive individuali o collettive. Poi la stagione della lotta armata che - anche per chi ne rimane fuori - fa da ponte alle sconfitte, al disastro che ne verrà. Tanti compagni persi, "vite spezzate", un fiammeggiare che brucia intelligenze, energie, risorse; un piccolo olocausto, insensato come tutti gli olocausti.

Poi gli anni '80, le sconfitte brucianti del movimento di classe, delle lotte operaie; il deserto, la terra bruciata delle coscienze e delle intelligenze; il rinchiudersi nel privato, il tentativo, inutile, di chiamarsi fuori, sapendo che un "fuori" non c'è.

Anni '90, crolla l'ordine di un mondo che sembrava cristallizzato; le contraddizioni imperialistiche che si acuiscono facendo presagire spazi, voragini, in cui si potrebbe dispiegare l'iniziativa autonoma e rivoluzionaria di masse crescenti, addirittura a livello internazionale; il rimettersi in gioco, pensando di poter ripartire da dove si era smesso. Ma questa è la storia di ieri pomeriggio, la conosciamo tutti.

Passiamo all'oggi. L'ordine del mondo si sta ricostruendo, su basi nuove e sempre più precarie, tra sussulti e sismi di assestamento. Guerre e guerricciole devastanti, un movimento di classe, la stessa classe, che appare un fuscello, privata di ogni soggettività e autonomia. Una crisi che non ha nemmeno la dignità di un cupio dissolvi, la tragicità di un dramma, ma che appare come un crepuscolare disfacimento, una progressiva, ovattata e melmosa perdita d'identità. E sul piano dei singoli, delle presunte avanguardie? Pochi, sempre di meno, altri ne abbiamo persi. Incerti alcuni, al confine di qualche sorta di nichilismo "rigenerativo" - come chi scrive; altrettanto confusi altri e perciò sempre più arroccati intorno a dubbie certezze o sbilanciati alla ricerca di altrettante dubbie "novità". Poi ci sono compagni nuovi, giovani che vivono però la dimensione della militanza e dell'impegno politico - privati dell'humus delle lotte e dei movimenti - in modo abbastanza incongruo rispetto alle nostre aspettative (almeno alle mie). "Forme" di vita un po' aliene, proprio perché dentro questi tempi (ma non saremo allora forse noi gli "ultracorpi"?). Che cosa abbiamo da dirgli, da trasmettere? Dove è il filo rosso di cui consegnargli il capo?

La crisi di fine secolo è anche, sul piano sovrastrutturale, crisi delle ideologie e dei sistemi di pensiero tesi a interpretare e/o a governare l'esistente. Mentre l'ideologia borghese si dibatte tra l'esaltazione di un improponibile neo-liberismo e l'impossibile recupero del welfarismo (ma poi hanno tanto bisogno di un'ideologia pervasiva finché il controllo sociale si può mantenere con altri mezzi?), le teorie rivoluzionarie manifestano l'impotenza tipica dei sistemi teoremici a cui sia venuto a mancare qualche assioma. I mille fallimenti dei marxismi, l'uno più devastante dell'altro. Gli eterni ritorni dell'anarchismo, sempre suggestivo, quasi mai incisivo. La lotta di classe dove è finita?

Scriveva a questo proposito un compagno non incline al pessimismo, che un po' di tempo fa ci è mancato: "Dove va la lotta di classe?... Ci potrà essere allora un momento in cui la lotta delle classi si risolve nella loro rovina; dunque: ammettiamo che potrà presentarsi in futuro una situazione di fronte alla quale dovremo ammettere che l'avvenire è la comune rovina delle classi in lotta, che equivale ad una sconfitta del proletariato senza che questo si sia battuto?". Faccio mio l'interrogativo e lo traduco: "Che ci stiamo a fare?". Bella domanda, peccato non ci sia la risposta. Però continuerò ad esserci. Continueremo ad esserci.

Walker



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