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Da "Umanità Nova" n.41 del 19 dicembre 1999

Dibattito
Le menzogne del capitale

Uno degli ultimi veli ideologici della letteratura economica borghese che ha condizionato e ridotto la stessa capacità di resistenza e di autonomia del movimento operaio, per tutti gli anni '80 e '90 è stato la favola del "piccolo è bello", riferita alla dimensione della struttura economica ed ai rapporti di produzione.

Si è insistito fino alla nausea sulle sorti progressive di un modello produttivo fatto di microimprese, di imprenditorialità diffusa, farneticando su sistemi a rete e su nuove professionalità.

Oggi solo qualche disattento dirigente intermedio del ceto politico di sinistra o sindacale continua a ripetere la solita cantilena sui progressivi sviluppi delle piccole e medie aziende e sull'imprenditoria diffusa come volano fondamentale per lo sviluppo e l'occupazione.

La borghesia nel produrre tutti questi cascami di fumi e veli ha trovato come amplificatori naturali le centrali sindacali e consistenti pezzi della sinistra istituzionale.

Questi prendendo a prestito una fiorente letteratura economica, per altro di esponenti "liberal", quali Rifkin, Gorz o Aznar, hanno preconizzato la fine del lavoro e con esso la fine dello stesso conflitto di classe; ma ciò che maggiormente preoccupa e che larghi settori della sinistra autodefinitasi antagonista abbiano, con ancora più convinzione, creduto in quest'ennesima lusinga e trucco della borghesia.

I dibattiti, a partire dagli ultimi anni '80, sul postindustrialismo e sulla necessità di un nuovo referente rivoluzionario, si sono sprecati anche nei nostri ambiti e circoli.

A partire proprio dal falso convincimento della fine delle grandi strutture industriali, dall'introduzione spinta dell'informatica nei processi di produzione e dal crescente numero dei lavoratori detti "atipici" nel ciclo produttivo il sillogismo usato è stato: il nuovo ciclo capitalistico presuppone una disoccupazione di massa strutturale, non si producono più merci, ma informazioni, non esistono più le grandi concentrazioni operaie o di lavoratori subordinati, quindi lo scontro tra capitale e lavoro perde la sua centralità o addirittura il suo senso.

Il reale aumento delle attività microimprenditoriali, commerciali ed individuali ( lavoratori autonomi a partita IVA,collaboratori occasionali, collaboratori continuativi, associati in partecipazione degli utili delle imprese ecc.) verificatosi a cavallo fra gli anni '80/'90, che ha rappresentato per le nuove generazioni e per gli innumerevoli lavoratori espulsi dai cicli produttivi l'unica opportunità di reddito e di sopravvivenza, a fronte della crisi di accumulazione capitalista iniziata, per l'appunto, a metà dei primi anni ''70 ha oltremodo favorito questa mistificazione.

Ma la maggioranza di queste nuove figure lavorative e delle cosiddette nuove professioni del terziario, avanzato o meno, che possono dare una diversa percezione soggettiva della classe a cui si appartiene, sono professioni che per rapporto economico (salario), per contenuto del lavoro (manuale), per orario (non libero), non hanno nulla di simile al libero professionismo, ma moltissimo alla condizione proletaria.

Commessi di grandi magazzini, camerieri di fast- food, giovani addetti alla consegna della posta celere ecc... sono proletari nelle peggiori condizioni di sfruttamento.

Il fatto che vi siano impiegati un certo numero di lavoratori con diploma o con laurea, non significa certamente che il contenuto del loro lavoro sia "intelletuale".

Fenomeni spinti di proletarizzazione si sono estesi anche nei settori in cui prevalevano forme di lavoro indipendente, come ad esempio nel commercio al dettaglio a tutto vantaggio della grande distribuzione, o nei classici settori di lavoro "intellettuale" impiegatizio dell'industria propriamente detta, con forme di collaborazioni esterne con impiegati o softweristi a partita IVA, non più legati direttamente all'industria madre, ma da questa totalmente dipendenti per commesse e carichi di lavoro.(contoterzisti).

Per la borghesia nel suo insieme questo fenomeno ha rappresentato, oltre al classico tentativo di controtendenza rispetto alla riduzione del saggio di profitto generale, scaricando i costi sulla forza lavoro, una vera e propria campagna di immagine a favore di un capitalismo diffuso e quindi vincente ideologicamente, (nonostante la sua crisi), ripreso a piene mani dalla sinistra istituzionale, dai vertici delle strutture sindacali ed in parte dal variegato e confuso mondo dell'antagonismo sociale.

La sinistra istituzionale, oggi al governo, con la complicità dei vertici sindacali, una volta ridotti i margini di redistribuzione salariale, hanno accentuato il loro ruolo storico di collaborazionismo con le proprie borghesie nazionali, svendendo pezzo dopo pezzo i diritti e le garanzie dei lavoratori in virtù di una difesa non più "dei lavoratori in carne ed ossa" ma del "sistema", come poco tempo fa affermato dal Presidente del Consiglio, Massimo D'Alema, per giustificare la sua ipotesi di moratoria dei diritti previsti dallo Statuto dei lavoratori per le aziende al di sopra dei 15 dipendenti, prontamente rilanciata in questi giorni da Larizza, segretario nazionale della UIL

Contrariamente alle tesi che postulano il declino e la sparizione del lavoro subordinato e salariato, i più recenti rapporti della Banca Mondiale prevedono un aumento su scala mondiale della popolazione lavorativa, con un rapporto di lavoro di tipo subordinato e retribuito, che la porterebbe a circa 3, 6 miliardi di persone nel 2025.

Tra il 1965 e il 1995 la forza lavoro subordinata è salita da 1,3 miliardi a 2,5 miliardi.

La nuova fase economica si evidenzia come una fase in cui la concentrazione e la centralizzazione di capitali sarà massima, le economie di scala saranno fondamentali per la supremazia di alcuni prodotti rispetto ad altri, i fallimenti, il ridimensionamento e le chiusure di fabbriche e degli stessi servizi saranno all'ordine del giorno.

Lo stesso ritiro dello Stato nell'erogazione dei servizi legati al welfare non è altro che una ulteriore estensione di lavoratori subordinati ed un aumento del processo di proletarizzazione, anche se l'erogazione di questi servizi, come nella maggioranza dei casi, viene affidata a cooperative.

Questa enorme diffusione del lavoro salariato convive, nelle metropoli imperialiste, con l'aumento della disoccupazione, ma soprattutto con l'allargamento della fascia di lavoro precaria e di rapporti di lavori atipici.

Che il fai da te, versione italiana del "self made man" americano, fosse una bufala lo testimonia il continuo crescere dei tassi di disoccupazione, in particolare quella giovanile e femminile.

I pochi nuovi posti creati con il lavoro flessibile, che poi vuol dire precario, i quali non si aggiungono alla forza lavoro stabile, ma la sostituiscono senza nessun effetto significativo sui tassi di disoccupazione, funzionano da "dumping" sociale a ribasso per i lavoratori che ancora lavorano a tempo indeterminato.

Nel solo settore metalmeccanico, nello scorso anno, dei nuovi posti di lavoro ottenuti ben il 66% sono a tempo determinato

La disoccupazione non è mai stata una preoccupazione per la borghesia, anzi ha da sempre favorito, nel processo di accumulazione, la diminuzione del valore della forza lavoro o detto in altri termini, l'aumento del plusvalore e quindi dei profitti.

I livelli altissimi raggiunti dall'orario straordinario, in particolare nei settori industriali, confermano che l'aumento dei profitti viene ottenuto oltre che con una intensificazione della attività produttiva attraverso l'introduzione del macchinismo (plusvalore relativo) allungando la stessa giornata lavorativa (plusvalore assoluto).

Nel solo settore auto nel '97 si sono raggiunte di media procapite 120 ore annue di straordinario.

La media lavorativa settimanale nel settore metalmeccanico, che resta nonostante tutto il più sindacalizzato, è di 45 ore, tenendo di conto che l'orario ufficiale per i turnisti è di 38 ore.

L'orario di fatto, quindi il classico sfruttamento, è aumentato.

Insieme a questa tipica e per niente postmoderna o postindustriale operazione padronale di aumento del plusvalore la concentrazione e centralizzazione di capitali rimangono la via maestra per affrontare le sfide ed i destini delle imprese nell'agone economico tipico del capitalismo: la contesa interimperialistica.

La cosiddetta rottamazione nel settore del commercio è paradigmatica di questa tendenza inesorabile all'accrescimento delle stesse dimensioni delle attività industriali, così come nei servizi e nella stessa distribuzione alimentare.

Basti pensare alle grandi fusioni e concentrazioni nel settore auto o delle telecomunicazioni, nel campo finanziario per arrivare ai servizi propriamente detti, quali ultimi i gestori dei distributori di benzina o lo stesso processo di vera concentrazione e centralizzazione che l'autonomia determina nell'istituzione scolastica, obbligando all'accorpamento quegli istituti che non superano le 500 iscrizioni.

Per dirla come l'ex ministro del lavoro Bassolino, nei riguardi della nostra struttura economica nazionale scopriamo, alle soglie del XXIdeg. secolo, che essa è una struttura economica complessivamente affetta da "nanismo economico" e per questo niente affatto adatta, anzi in forte difficoltà, nella contesa imperialista in atto. Altro che "piccolo e bello" oppure formule ancora più demagogiche del tipo "ognuno è imprenditore di se stesso".

A mo' di parzialissima conclusione di questo argomentare, seppur schematicamente, è possibile individuare alcuni terreni che come movimento specifico, a mio parere, dovremmo e potremmo meglio definire e praticare a partire dal convegno promosso dalla Federazione Anarchica Italiana a Torino il 3 e 4 Marzo prossimo.

a) il conflitto fra capitale e lavoro non solo non è finito , ma è vieppiù centrale nel processo di accumulazione capitalistico e quindi occorre che diventi centrale politicamente e conseguentemente nella prassi dell'agire dei rivoluzionari;

b) occorre smascherare le lusinghe e le mistificazioni della borghesia e delle strutture collaterali quali partiti e sindacati riformisti sulla scomparsa del conflitto di classe, partendo dall'acquisizione materialistica del modo di produzione capitalistico;

"così nel mondo sociale, che del resto deve essere considerato come l'ultimo grado del mondo naturale, lo sviluppo delle questioni materiali ed economiche fu sempre e continuerà ad essere la base determinante di ogni sviluppo religioso, filosofico, politico e sociale" (Michail A. Bakunin)

c) costruire lotte unitarie con i disoccupati e giovani precari per una effettiva riduzione dell'orario di lavoro a partire dall'uso indiscriminato dello straordinario, lottare, là dove vi è la possibilità, per forti aumenti retributivi sostanzialmente egualitari.

d) creare e sviluppare forme di rigidità operaia e lavorativa in controtendenza con l'uso flessibile e precario della forza lavoro. La battaglia dei precari dell'UPS negli Stati Uniti può essere di riferimento

e) centralizzare gli sforzi organizzativi, le competenze e i relativi radicamenti dei compagni anarchici impegnati nella battaglia politica sindacale per campagne nazionali e possibilmente europee su tematiche generali per una visibilità del movimento specifico e delle sue elaborazioni all'interno dello scontro di classe in atto.

Cristiano Valente



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