![]() Da "Umanità Nova" n.01 del 16 gennaio 2000 Come sfondare con i fondi pensione
Questo governo resuscitato, tra il tragico e il ridicolo, alle soglie del Natale ha voluto abbandonare il secolo antico varando il provvedimento fiscale sulla previdenza integrativa. A suo modo, è la traccia di un programma di governo per l'anno che ci separa dalle elezioni del 2001, quando avremo concrete possibilità di tornare ad essere governati dal centro-destra del Cavaliere. Il governo D'Alema ha infatti deciso di sparare le sue ultime cartucce sulle riforme di struttura, che in Italia significa attaccare a fondo il sistema pensionistico. È un gioco a rischio alto, come dimostra la sonora sconfitta delle precedenti elezioni europee e la perdita di Bologna, dopo le dichiarazioni del premier proprio sulla necessità di accelerare la riforma Dini, prima della naturale scadenza del 2001. Come sappiamo D'Alema vuole passare subito al contributivo per tutti, per prevenire la "gobba" della spesa Inps prevista tra 2005 e 2020, e la Cgil di Cofferati appoggia la proposta per salvare il "suo" governo amico. Cisl e Uil puntano invece ad arrivare al 2001 prima di cedere garanzie certe in cambio delle solite promesse occupazionali, lavorando intanto alla flessibilizzazione totale del mercato del lavoro. La mossa del governo punta a cementare il rapporto di fiducia con i poteri forti, sempre pronti a favorire le soluzioni centriste più moderate: portando a compimento la riforma delle pensioni il centro-sinistra darebbe l'ennesima dimostrazione di saper governare il cambiamento della società in modo decisionista e moderno, senza perdere troppo consenso elettorale. Una vera prova del nove. Per poter riformare le pensioni occorre però fornire una cornice adeguata: lo smantellamento del pilastro pubblico può essere "venduto" bene solo se esistono i pilastri alternativi, cioè la previdenza complementare negoziale (fondi chiusi) e quella integrativa privata (fondi aperti). Bisogna coordinare un complesso di interessi (finanza pubblica, sistema d'impresa, sindacati, banche e assicurazioni), facendo in modo che i perdenti (i pensionati) non se ne accorgano in modo troppo palese. Il provvedimento di fine anno punta a far partire i fondi pensione, dopo le prime deludenti prove, anche se viene rimandato al negoziato vero e proprio che partirà entro gennaio la definizione delle questioni più controverse (in specifico, l'utilizzo del TFR dei lavoratori oggi in mano alle imprese). La fotografia dei fondi pensioni alla fine del settembre 1999 era la seguente: esistevano 774 fondi preesistenti alla legge del 1995, che raggruppavano circa 635.000 aderenti; il numero totale dei fondi nati dopo la riforma del 1995 era invece di 115, tra cui 30 fondi chiusi (con 516.000 aderenti) e 85 fondi aperti (con 85.000 aderenti). Il decollo dei fondi pensioni sta avvenendo dunque in modo piuttosto lento, per cui tutti i soggetti coinvolti auspicano una sterzata risolutiva. Vediamo il perché. Abbiamo già visto che il governo vuole costruire due pilastri alternativi, per poter attaccare il primo pilastro, cioè il sistema di previdenza pubblica, e abbassare in modo strutturale la spesa statale destinata a ripianare il deficit Inps. Gli industriali puntano ad un drastico calo dei contributi previdenziali, per ottenere un abbattimento del costo del lavoro: sanno che dovranno rinunciare al TFR dei lavoratori (che oggi rappresenta una fonte di autofinanziamento a basso costo), ma puntano ad ottenere dei meccanismi non automatici e soprattutto intendono usarlo come scambio politico contro altre forme di sostegno pubblico; il decollo dei fondi pensione permetterà peraltro un aumento delle risorse finanziarie disponibili, che torneranno alle imprese come investimento azionario. In conclusione, quello che esce dalla porta, rischia di rientrare dalla finestra e pure con gli interessi. I sindacati della triplice intendono sfruttare a pieno i fondi pensione come business, piazzando i propri membri nei consigli di amministrazione, e ottenendo così un'importante fonte d'entrata per i propri bilanci. Ogni cda di un fondo pensione che si rispetti ha almeno 15/16 membri, di cui almeno la metà di nomina sindacale. Ogni cda distribuisce in media 400/500 milioni l'anno di gettoni di presenza, per cui i conti sono presto fatti. Inoltre va considerato che nel tempo i fondi pensione arriveranno a gestire risorse imponenti (si calcola, nei prossimi vent'anni, qualcosa come 1.000.000 di miliardi di lire), per cui il sindacato diventa un importante soggetto di gestione finanziaria e industriale. Si spiega molto bene quindi la compatta levata di scudi del sindacato contro ogni ipotesi di uniformare il trattamento di fondi chiusi e fondi aperti: i sindacati hanno ottenuto importanti privilegi per i fondi chiusi, hanno eretto alte barriere all'entrata, perché difendono il "proprio" business. Tuttavia l'entusiasmo dei lavoratori si è dimostrato sinora un po' freddo: dei 30 fondi chiusi esistenti, solo 5 sono operativi, con percentuali d'adesione basse (40% il Fonchim, 59% Fondenergia, 23,3% Cometa, 88% invece il Fondo quadri e capi Fiat). In particolare l'adesione dei giovani (quelli che potenzialmente ne avrebbero più bisogno) è al di sotto del 10%. Nel complesso i sindacati sono riusciti sinora a fare entrare nei loro fondi chiusi solo 531.000 aderenti, rispetto ad un potenziale di almeno 10 milioni di lavoratori dipendenti "coperti" da contratti collettivi. Una riflessione sulla scarsità di salario e sulla bassa disponibilità operaia a finanziarsi una pensione integrativa con salario fresco, naturalmente, non ha neanche sfiorato le menti lungimiranti dei dirigenti sindacali. Banche ed assicurazioni sono ovviamente schierate sul versante opposto al sindacato, e sono quelle che si lamentano di più per i privilegi accordati ai fondi chiusi rispetto ai "loro" fondi aperti, che pur essendo 85 hanno raccolto solo 85.000 aderenti, una media di non oltre 1000 a testa. Un risultato davvero esiguo, dovuto anche al ritardo con cui i governo ha varato i decreti attuativi (i fondi sono riusciti a partire solo un anno fa). In genere un fondo aperto (pur garantendo buoni profitti a chi lo gestisce) ha dei costi più bassi di un fondo chiuso, perché non ha cda, non ha strutture amministrative specifiche, viene gestito tecnicamente dalla sezione di asset management della società emittente, è molto simile ad un fondo comune di investimento, tranne che per le previsioni di legge su prestazioni e rendimenti. Sono dunque dotati di notevole appeal, ma nella struttura italiana manca la possibilità di scegliere (perlomeno per i lavoratori dipendenti), proprio per la presenza fagocitante dei sindacati di stato. I fondi aperti sono infatti destinati ai lavoratori autonomi, ai professionisti, ai commercianti ed a quei lavoratori dipendenti che si collocano in posizione marginale sul mercato del lavoro, cioè in quelle aziende che non applicano neanche un contratto collettivo di lavoro, oppure ne applicano uno così "povero" che non fornisce neanche la previdenza complementare. La pletora dei potenziali interessati si aggira anche qui sui 10 milioni di soggetti, ma in questo caso manca il propellente del TFR, cioè la quota di liquidazione versata dal datore di lavoro, insieme ai propri contributi e a quelli del lavoratore. Inoltre, esiste un dato di cultura: la presa di coscienza che la pensione pubblica non sarà sufficiente a garantire un reddito adeguato ad una vita decente comincia appena a farsi strada e passeranno anni prima che si trasformi in una convinzione diffusa, per poi tradursi nella concreta adesione ad un fondo privato.
Il provvedimento del governo spinge ad un vero decollo i fondi pensione attraverso un complesso intervento normativo, che ha però due contenuti di sostanza: raddoppia la quota di reddito deducibile e abbassa l'aliquota fiscale sui rendimenti finanziari. Tradotto in soldoni funziona così: 1) attualmente si poteva dedurre dal reddito imponibile una quota pari al 6% con un massimo di 5 milioni; dal 2001 sarà possibile dedurre una quota pari al 12% del reddito, con un massimo di 10 milioni; 2) attualmente la prestazione finale del fondo veniva colpita con un'aliquota fiscale del 12,5% (applicata sul rendimento finanziario, cioè sulla differenza tra ricavo finale e contributi effettivamente versati); dal 2001 questa aliquota verrà abbassata all'11%. Su tutte le altre questioni la trattativa deve ancora partire. In particolare occorre definire, come dicevamo, la questione del TFR (beninteso quello che matura d'ora in avanti, non certo quello che è in mano alle aziende, che nessuno si sogna di toccare). Dopo le provocatorie sparate della Cgil, che aveva proposto di restituirlo ai lavoratori come denaro fresco, adesso le cose si sono chiarite: il tfr in maturazione confluirà nei fondi pensione. La Cgil vorrebbe farlo per decreto (confidando nella presunta mancanza di responsabilità dei singoli individui, cioè la solita posizione paternalistica-educativa sulle masse ignoranti e imprevidenti), mentre Cisl e Uil vorrebbero negoziare la questione in azienda, caso per caso. Quel che è certo è che, superata la resistenza della Confindustria a mollare il tfr, i lavoratori si troveranno i propri soldi inchiodati nei fondi pensione, con un rendimento ancorato alle performance dei mercati finanziari, soldi gestiti insieme da padroni e sindacati, tanto per approfondire la cogestione. Un istituto come la liquidazione, nato per sopperire alle esigenze immediate di reddito dopo la fine del rapporto lavorativo (sia per licenziamento che per pensionamento), viene trasformato in una colonna del nuovo sistema previdenziale integrativo, per sopperire alla paventata defaillance del sistema pubblico. E molto probabilmente al lavoratore non verrà neanche chiesto di esprimere il suo parere. Credo che ogni commento sia del tutto superfluo... Renato Strumia
|
Redazione: fat@inrete.it
Web: uenne@ecn.org