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Da "Umanità Nova" n.3 del 30 gennaio 2000

I referendum del padrone

Mentre scriviamo questo articolo non sappiamo ancora quanti e quali referendum radicali saranno ammessi dalla Corte Costituzionale e, di conseguenza, quale sarà il preciso scenario che si definirà nei prossimi mesi.

Vale, comunque, la pena di riflettere sull'impatto che avrebbero, se ammessi alla votazione ed approvati, sul quadro sociale.

Va, in primo luogo, riconosciuto che quando Giacinto, detto Marco, Pannella afferma che costituiscono un vero e proprio programma generale per quel che riguarda le regole di funzionamento della società ha perfettamente ragione. Se, per assurdo, tutti fossero ammessi ed approvati ci troveremmo in un contesto radicalmente diverso dall'esistente.

I cosiddetti referendum sociali sono, infatti, undici e toccano diversi aspetti della condizione materiale della working class e del diritto del lavoro. Non vi è lo spazio per parlare di tutti i referendum sociali ma può valere la pena di segnalarne alcuni caratteri generali anche in considerazione del fatto che gli stessi giuslavoristi di area confindustriale ritengono che diversi dei referendum proposti non saranno approvati.

Due referendum sono, o sembrano, volti a colpire non i lavoratori in quanto tali ma le organizzazioni sindacali e i privilegi che fondano la loro integrazione corporativa nella macchina statale. Si tratta di quello che abolisce la trattenuta in busta paga della quota di iscrizione al sindacato e di quello che colpisce i patronati sindacali.

É sin troppo noto, infatti, che il controllo sulla working class da parte dei sindacati di stato è garantito, oltre che, ovviamente, dal rapporto privilegiato con il governo ed il padronato, da un sistema legislativo, sviluppatosi nei decenni passati, volto a selezionare i soggetti sindacali titolari di una serie di diritti e di risorse rilevanti.

La trattenuta della quota di iscrizione al sindacato in busta paga garantisce ai sindacati stessi risorse importanti e li esime dal faticoso lavoro di raccogliere direttamente le quote di iscrizione. Vi sono, inoltre, casi nei quali i sindacati di stato arrivano a farsi pagare le quote o, comunque, cifre di una qualche consistenza da parte dei lavoratori senza nemmeno chiederne il consenso. Mi riferisco in particolare ma non solo alle cifre previste in diversi contratti per compensarli del lavoro svolto.

Una valutazione realistica degli esiti possibili di questo referendum ci porta, però, a concludere che colpirebbe non i sindacati istituzionali ma quelli alternativi. Infatti la materia potrebbe essere regolata sulla base di accordi di categoria, come già sostanzialmente in gran parte avviene, con l'effetto di non toccare in alcun modo CGIL-CISL-UIL e di togliere ad altri soggetti sindacali le residue possibilità di vedersi riconosciuto questo diritto. L'unico problema che si porrebbe ai sindacati di stato sarebbe la necessità di non forzare nello scontro con il padronato e, visto che di forzare non hanno alcuna intenzione, non si tratterebbe di un problema grave.

L'abolizione dei privilegi riconosciuti ai patronati sarebbe, forse, un colpo più forte per i sindacati di stato visto che favorirebbe l'entrata su questo mercato di altri soggetti (imprese, banche ecc.) ma il sostanziale controllo che hanno su questo segmento di mercato dovrebbe permettere loro di reggere il colpo.

In buona sostanza, se i due referendum più esplicitamente antisindacali dovessero passare, CGIL-CISL-UIL dovrebbero rapportarsi al padronato da una posizione di maggior debolezza rispetto alla situazione attuale ma è ragionevole pensare che se la caverebbero abbastanza bene anche perché è già iniziata da anni una loro mutazione nella direzione di una gestione mercantile dei servizi che offrono agli iscritti ed ai lavoratori.

I nove referendum volti a ridurre i diritti riconosciuti ai lavoratori in quanto tali pongono problemi sostanzialmente diversi. Sulla base della considerazione già fatta sulla probabile falcidie, può essere opportuno concentrarsi su quello che abolisce non (come alcuni sbrigativamente affermano) la giusta causa per il licenziamento ma l'obbligo di reintegrare nel posto di lavoro coloro che saranno licenziati senza giusta causa.

Si è già fatto rilevare su queste pagine che la normativa sulla giusta causa non riguarda già oggi i lavoratori delle imprese con meno di quindici dipendenti, i lavoratori in nero e quelli "anomali" e che, di conseguenza, la maggioranza della working class non può utilizzare questo strumento di tutela. Dal punto di vista di classe si pone, di conseguenza, il problema di conquistare diritti nuovi per coloro che ne sono esclusi.

L'eliminazione del diritto alla conservazione del posto di lavoro per i licenziati senza giusta causa colpirà, con ogni probabilità, due segmenti della forza lavoro:

- i lavoratori combattivi sul terreno politico e sindacale;

- i lavoratori improduttivi, secondo il punto di vista padronale, per ragioni di salute e di età.

Nel corso di una recente riunione, un compagno raccontava come, qualche mese addietro, i quadri della sua azienda avessero proposto a molti lavoratori sulla cinquantina di licenziarsi in cambio di una buona uscita per poterli sostituire con nuovi assunti giovani ed energici e come i lavoratori ai quali era stata fatta questa proposta avessero tutti rifiutato per il banale motivo che sanno benissimo che nessuna impresa assumerebbe dei cinquantenni in condizioni di salute mediocri. Pare evidente che se fosse possibile licenziare un salariato cinquantenne con le caratteristiche su accennate dandogli solo qualche mese di stipendio vi sarebbe una falcidia notevole.

Questo senza calcolare l'accrescersi del potere padronale sui salariati grazie al semplice ricorso alla minaccia del licenziamento.

In estrema sintesi:

- il referendum in questione è volto a rendere la condizione dei lavoratori della media e grande impresa simile a quella dei lavoratori della piccola impresa e del lavoro nero ed "anomalo". Ha, quindi un obiettivo "egualitario" al ribasso nel solco tracciato da molti recenti accordi sindacali;

- colpire la working class della media e grande impresa significa attaccare anche la possibilità di sviluppare conflitto e di ricomporre un fronte con i settori più deboli della forza lavoro;

- questa perdita di diritti verrà presentata come un bene per i settori più deboli visto che i padroni assumeranno più facilmente se potranno licenziare quando vorranno.

Assieme agli altri referendum quello che abbiamo ricordato si propone di determinare una precarizzazione generale della forza lavoro in nome delle capacità autoregolatrici del mercato e della potenzialità di sviluppo di un'economia "liberalizzata".

Ci piaccia o meno, questa vicenda ci riguarda e ci interroga in quanto salariati ed in quanto compagni. Da una parte è evidente che i diritti conquistati o concessi nel passato erano volti ad integrare i salariati nell'ordine sociale dominante. Dall'altra è altrettanto evidente che la distruzione di questi diritti è volta a favorire una sottomissione ed un'integrazione subalterna nell'impresa.

I rischi che corriamo sono due:

- operare come ala radicale del fronte antipannelliano egemonizzato dalla sinistra governativa e statalista;

- non assumere lo scontro politico e sociale realmente dato in nome di una purezza di posizioni assolutamente improduttiva.

Solo l'azione e la capacità di cogliere i termini dello scontro in atto possono aiutarci a sfuggire da queste tenaglia.

Alcune proposte, molto abbozzate, sono state fatte sul precedente numero di UN. Altre, e più articolate, potranno essere fatte,

Mi limito ad indicare, a questo proposito, due criteri che dovrebbero guidare la nostra azione in questa contingenza:

- l'attenzione all'area del lavoro salariato che non ha diritti e la necessità di una campagna politica su questo tema:

- il convincimento che l'eguaglianza, la limitata eguaglianza possibile nell'ambito dell'ordine statale e capitalistico ed, a maggior ragione, l'eguaglianza come noi l'intendiamo, non può essere definita a partire dalle condizioni peggiori ma deve assumere ogni conquista di un settore particolare delle classi subalterne come da estendersi a coloro che ne sono esclusi.

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