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Da "Umanità Nova" n.4 del 6 febbraio 2000
Dibattito
Orizzonti di gloria. Riflessioni di un dopoguerra
E' la guerra che ha presieduto alla nascita degli Stati; (...) le leggi
sono nate in mezzo alle spedizioni, alle conquiste e alle città
incendiate. Ma la guerra continua anche a imperversare all'interno dei
meccanismi di potere, o quanto meno a costituire il motore segreto delle
istituzioni, delle leggi e dell'ordine.
(M. Foucault)
Sono trascorsi soltanto pochi mesi e quasi sembra che non sia mai avvenuto:
siamo stati dentro una guerra vera e per molti aspetti non ne siamo mai
usciti.
La situazione nei Balcani è infatti ben lungi dall'essere
normalizzata e pacificata così siamo consapevoli che neppure questa
sarà l'ultima guerra che vedremo, eppure nessuno sembra averne tratto
degli insegnamenti utili per impedire la prossima.
DAL WELFARE AL WARFARE
L'aggressione militare della NATO alla Jugoslavia e il conseguente stato di
guerra hanno rappresentato per la società italiana una svolta, a tutti
gli effetti, storica: dal ciclo degli interventi "di pace" iniziato nei primi
anni '80 con la spedizione in Libano ed approdato alle torture di "Restore
Hope" in Somalia, passando dalla diretta partecipazione alla guerra contro
l'Iraq nel '91, lo Stato italiano è giunto -per la prima volta dopo la
fine della Seconda Guerra Mondiale- a combattere sul suolo europeo una guerra,
peraltro mai formalmente dichiarata e in violazione del dettato costituzionale,
contro un'altra nazione e un altro popolo.
Questa belligeranza, grazie al governo di centro-sinistra, è stata
totale e incondizionata in quanto non solo ha trasformato la nostra penisola in
una portaerei, ma ha garantito alla NATO e agli USA un sostegno militare di
primo livello attraverso l'attiva mobilitazione di tutte le forze armate
nazionali (esercito, marina, aereonautica), partecipando pure alle azioni di
bombardamento sul territorio "nemico" e, adesso, mettendo a disposizione
reparti militari italiani quali truppe d'occupazione in Kosovo.
Tutto questo fino a poco tempo fa sarebbe stato inattuabile.
Sarebbe stato impensabile negli anni Settanta quando una simile decisione
politica avrebbe probabilmente scatenato una guerra civile, così come
sarebbe stato difficile ad attuarsi anche negli anni Ottanta, contrassegnati da
un vasto movimento pacifista contro l'installazione degli "euromissili"; ma la
guerra contro la Serbia ha rappresentato una fase nuova della politica
neo-imperialista italiana anche rispetto agli anni Novanta, facendoci
intravedere gli scenari che ci attendono in futuro.
Di fronte a questa inedita situazione, se la cosiddetta opinione pubblica
è stata messa in condizione di non avere coscienza e di non reagire
grazie ad una manipolazione sistematica dell'informazione compiuta da apposite
strutture militari, media di regime e agenzie private specializzate, va pure
osservato che tutto quello che si può definire "opposizione alla guerra"
ha dovuto fare i conti non soltanto col problema rappresentato dal primo
governo di "centro-sinistra" guidato da un ex-comunista che va alle marce per
la pace, ma ha pure scontato una certa acquisita abitudine all'interventismo
tricolore che non ha fatto del tutto comprendere il carattere "anormale" e
l'assoluta gravità di quanto andava accadendo.
Tale limite -si potrebbe dire di visione storica- ha comportato il fatto
che anche le componenti più coerentemente pacifiste, antimperialiste e
antimilitariste hanno dato risposte, sia in termini di analisi che di pratiche,
rispettabilissime ma non molto diverse per livello e qualità da quelle
messe in campo contro le passate missioni dell'interventismo italiano, finendo
per ricalcare il copione propagandistico delle manifestazioni locali e
nazionali che ad ogni week-end, per quanto potessero mobilitare decine di
migliaia di persone, non solo non potevano realmente inceppare la macchina
della guerra, ma neanche comunicare che si stavano vivendo tempi di allarme
non-consueto e di scelte urgenti.
Questo rimane il problema da sciogliere per i tempi avvenire: lo Stato
italiano, inserendosi pienamente nel "nuovo ordine mondiale", policentrico e
multipolare e quindi ad alta conflittualità, potrà decidere di
giocare la carta della guerra come "invariante variabile" della politica e
dell'economia ogni volta che vorrà, gli converrà o gli
verrà imposto, se l'opposizione alla guerra non saprà pensare e
mettere in atto risposte tempestive ed adeguate all'emergenza rappresentata da
un'altra Blitzkrieg.
Questo appare tanto più necessario perché, come si è
potuto già sperimentare, se la situazione internazionale si aggrava e
porta ad un'ulteriore escalation della violenza militare, la
criminalizzazione e le misure repressive tendono a ridurre gli spazi di
libertà ed azione per gli oppositori.
Invece si ha l'impressione che durante quest'ultimo conflitto ci si
è generalmente limitati a ripetere di NON FARE LA GUERRA, magari rivolti
proprio a quel potere costituito che l'aveva decisa e la stava conducendo con
estrema determinazione, senza avere neanche noi la piena consapevolezza che
eravamo già immersi nella guerra, quasi che dentro di noi ci fosse un
rifiuto, più o meno conscio, della tragedia annunciata che ci vedeva
inchiodati alle nostre responsabilità.
Sì, certo, da brave Cassandre l'avevamo sempre detto che questo
sistema di potere ci avrebbe portato alla guerra, ma quando questa è
arrivata pure noi siamo rimasti increduli e disarmati davanti al fatto che lo
Stato stavolta faceva sul serio e che, a poche centinaia di chilometri dalla
nostra quotidianità, bombe italiane sganciate da piloti italiani stavano
disegnando col sangue nuovi assetti politici, economici e culturali.
I paradossi che si sono prodotti in simile clima non si contano: la
non-paragonabile emotività collettiva delle piazze e nei supermercati di
otto anni prima per una guerra -quella contro l'Iraq- geograficamente assai
più lontana; il convivere giorno dopo giorno con un massacro in corso di
cui tutti finivano per essere complici, senza che le nostre esistenze ne
fossero turbate più di tanto; la passività degli studenti che
solo pochi mesi prima avevano okkupato le scuole contro una riforma;
l'estraneità dei lavoratori per un'impresa i cui costi da vertigine
sicuramente stanno ricadendo sulle loro condizioni economiche; i pic-nic
domenicali dei "milituristi" ad Aviano con i bambini ad applaudire i portatori
di morte per altri bambini; i dibattiti televisivi in cui, democraticamente, si
mettevano a confronto le opinioni di politici, generali e "società
civile" sul macello in corso; il rito dell'estate balneare, con un mare
Adriatico disseminato di ordigni di guerra...
Roba da incubo.
GIOIE E DOLORI
Pur non avendo la pretesa di formulare un bilancio su oltre due mesi di
opposizione CONTRO LA GUERRA in Italia, la prima cosa che va evidenziata
è la sua sostanziale differenza dal movimento PER LA PACE sviluppatosi
ai tempi della Guerra del Golfo, certo più esteso e visibile, ma anche
più generico e fortemente condizionato dal "pacifismo" del PCI-PDS e dal
cattolicesimo militante.
Nel '99, seppure tra numerose contraddizioni, vi è stata una
maggiore radicalità o quantomeno una minore ambiguità da parte
dell'opposizione antibellicista, tanto che la "sinistra" governativa ha dovuto
quasi sempre subire la critica e l'iniziativa contro la guerra.
Probabilmente, i vertici DS avrebbero voluto che, come in passato, i propri
aderenti partecipassero alla mobilitazione pacifista per renderla generica ed
inoffensiva, però difficilmente simile operazione è loro
riuscita, sia perché la posizione dei Democratici di Sinistra e del loro
governo era troppo "esposta", sia perché molti aderenti al partito di
D'Alema hanno vissuto una salutare crisi d'identità davanti alla strage
"umanitaria".
Anche le innumerevoli azioni dirette compiute un po' ovunque contro le sedi
del "partito della guerra" hanno messo a nudo contraddizioni, travagli e sensi
di colpa tra i militanti diessini, incapaci di reagire finché il delitto
D'Antona non ha fornito loro la chiave di lettura "terroristica" per
interpretare la crescente protesta contro la guerra ed annullare i dissensi
interni; da notare infatti che soltanto DOPO l'attentato siglato BR, la
direzione DS ha reso noto alla stampa l'elenco delle azioni dimostrative, delle
scritte murali e degli attentati subiti dalle sue sezioni nelle settimane
precedenti, quando questi erano stati fino a quel momento minimizzati o taciuti
per occultare il dissenso antigovernativo.
Premesso questo, non si possono nascondere quelli che sono stati i limiti e
gli errori del "fronte" anti-guerra.
Innanzitutto va sottolineata la sostanziale subalternità nei
confronti del principale liet motiv della propaganda bellicista,
tendente proprio ad accreditare gli USA e la NATO come i "gendarmi del mondo",
su cui è stato costruito l'intero apparato di consenso nei confronti
della guerra "necessaria" e "giusta", quale rimedio estremo ad un male
estremo.
Su questa questione bisognava invece essere in grado di affermare un punto
di vista realmente alternativo che, partendo dalla negazione del ruolo d'ordine
e di garanzia della legalità svolto nella società dalla polizia,
dimostrasse come i gendarmi della NATO stessero svolgendo una funzione
distruttiva, destabilizzante e illegale. Tra l'altro, tale nodo, per noi
antiautoritari offre la possibilità di mettere radicalmente in
discussione la logica della "pace con ogni mezzo necessario", usata da ogni
Stato per legittimare in ogni tempo i peggiori misfatti.
In secondo luogo, quanti si sono mobilitati contro l'aggressione NATO hanno
subito la propaganda "umanitaria" legata alla questione dei profughi, senza
comprendere come ormai l'ideologia dei diritti umani si sposi perfettamente con
disegni di dominio e strategie economiche perseguite col ferro e col
fuoco.
Infatti, dietro tale copertura etica c'è ormai un ben preciso ordine
di idee: innanzittutto i "diritti umani" vengono separati dai principi generali
che almeno teoricamente dovrebbero governare il diritto internazionale e sono
presentati come una sorta di diritto "naturale", appunto come proclamazioni
gratuite di valori eterni e metagiuridici, per cui, ad esempio, i pur astratti
principii generali contenuti nella carta dell'ONU -di uguale sovranità,
di non intervento, di cooperazione internazionale, di divieto del ricorso alla
guerra per risolvere i contenziosi- risultano superati e irrilevanti, nel
momento in cui gli Stati più forti stabiliscono dove è il Bene e
dove è il Male, cosa è la Democrazia e cosa è la
Dittatura, quale è l'Ordine e quale è il Disordine.
Conseguentemente, molti anche a sinistra, si sono dimostrati vittime di
tale apparato ideologico, dimenticando che la ripresa economica statunitense
è decollata proprio con "Desert Storm", sotto la bandiera dei diritti
umani, alla faccia di chi ritiene demodé parlare ancora di
tendenze neo-imperialiste. Così, subendo il ricatto morale di chi stava
seminando morte in quantità industriale, anche chi era contro la guerra
doveva precisare che era anche contro Milosevic e che anzi lo STOP ai
bombardamenti NATO sarebbe servito per fermare il regime assassino di Belgrado,
contribuendo così indirettamente alla demonizzazione del "nemico" e a
dare credito alla disinformazione riguardante la dinamica e le dimensioni della
"pulizia etnica".
Infine la maggioranza dello schieramento contro la guerra non è
stato in grado di andare oltre il CHIEDERE lo stop dei bombardamenti o, peggio,
una tregua, senza prendere atto dell'avvenuto superamento di una pur formale
dialettica democratica e facendo finta di non vedere l'Europa dell'Euro,
già blindata dentro Schengen e Maastricht, coinvolta nell'area balcanica
sul piano militare ed economico come nascente entità
imperialista.
IL MIO NOME E' MAI PIU'
E' facile prevedere che l'avvenire ci riserverà un'ulteriore
affermazione dello Stato militare, come peraltro confermato dalla
ristrutturazione efficientistica delle forze armate, gli investimenti per nuovi
sistemi d'arma, il costante aumento delle spese per la "difesa", la
professionalizzazione del servizio militare e l'apertura dell'arruolamento alle
donne; per questo è più che mai necessario porsi il problema di
come affrontare le prossime guerre, pensando a nuove possibili forme di
comunicazione ed insubordinazione sociale che diano delle prospettive concrete
a quel "movimento" che la scorsa estate -dopo aver attuato per 78 giorni
cortei, presidi, manifestazioni, blocchi, petizioni, sassaiole, scioperi,
azioni dimostrative e quant'altro- stava esaurendo le ultime energie e le
ultime idee contro una storia apparentemente incontrovertibile.
Occorrono quindi strutture stabili che senza aspettare il prossimo
conflitto, più o meno limitato, producano resistenza alla
militarizzazione della società e del territorio, collegando la questione
delle spese militari alle lotte dei lavoratori per i servizi sociali tagliati
dalle varie Finanziarie "di guerra".
Occorre ripensare l'azione antimilitarista, perché se è vero
che siamo contro l'esercito in quanto tale, è altresì innegabile
che la "riforma" in senso professionale del servizio militare ci porrà
senz'altro dei problemi nuovi; infatti, per quanti hanno sempre ritenuto
l'antimilitarismo non una scelta etica ma una pratica sovversiva, si pone oggi
il problema su come cercare di indebolire, disgregare, disarticolare, rendere
meno efficiente e affidabile possibile la macchina militare. In questo senso
assumono quindi nuova importanza lotte "mirate" come quella per lo scioglimento
di un corpo scelto di importanza strategica quale è la "Folgore", la
contro-propaganda verso i giovani sul "mestiere" di soldato, la
possibilità di diffondere pensiero critico e autorganizzazione anche
nelle caserme, per non lasciare nelle mani delle gerarchie e
dell'indottrinamento quanti si arruoleranno per motivi esclusivamente
economici.
Tutto questo nella convinzione rivoluzionaria che la guerra rimane non solo
la più grande tragedia della storia, ma anche la realtà in cui si
concentrano in modo dirompente e simultaneo tutte le contraddizioni, le
ingiustizie, le violenze, le tensioni e le potenzialità di questa
società, non escluse la lotta di classe e la rivolta totale contro
l'annientamento.
KAS.
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