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Da "Umanità Nova" n.4 del 6 febbraio 2000

Convegno FAI di Livorno
Dare corpo all'Utopia

Come al solito, cercare di rendere giustizia ad un dibattito molto vario, ricco e perché no!, conflittuale, è sempre cosa improba. Comunque ci provo.

Il confronto sulla transizione rivoluzionaria si è protratto per due giornate, di cui una sino alla sera (domenica) e si è, a mio parere, sviluppato su due direttrici: da un lato sui contenuti della rottura rivoluzionaria, ovvero se esistano uno o più temi centrali del processo di trasformazione radicale della società e, dall'altra, sui metodi della trasformazione radicale. Il tutto aveva come sfondo, mai abbastanza esplicitato dai relatori, il ruolo di un'organizzazione politica come la FAI oggi e di conseguenza quale ipotesi organizzativa sia più consona al progetto di trasformazione politica che si ha in testa.

Senza tralasciare, ovviamente, che parte importante del dibattito è stata piacevolmente occupata dalla semantica e dal senso delle parole che usiamo.

I contenuti: un breve spunto di discussione è emerso dacché alcuni hanno sostenuto che un progetto di trasformazione anarchica e/o comunista libertario della società è una questione di "buon senso", figlio illegittimo di un iper-razionalismo illuministico, più ampia e diversificato è stato altresì il dibattito dal punto di vista del che cosa consentirebbe il processo rivoluzionario (non transizione da un mondo ad un altro come iter metafisico che ci porta nel paese del Bengodi, come ricordava Enrico Voccia). Si passa infatti da una visione che mette al centro la centralità del conflitto capitale-lavoro e la conseguente priorità dell'espropriazione della proprietà privata dei mezzi di produzione come fattore essenziale (Tiziano Antonelli), con la necessaria centralità organizzativa in senso "partitico" della FAI, a due più prettamente sindacali, una di matrice anarcosindacalista (Claudio Galatolo) che vede nel sindacato lo strumento rivoluzionario per eccellenza e l'altra del sindacalismo autorganizzato (Cosimo Scarinzi) che pone sì la centralità del conflitto capitale-lavoro come pezzo non eludibile della trasformazione, ma contenuto di per sé non sufficiente a spiegare le contraddizioni presenti nella nostra società. Pertanto, in questa visione, il sindacalismo si configura come parte integrante del conflitto sociale, ma non come la parte che possa avere la "direzione" della rottura rivoluzionaria. Tutte le posizioni sopracitate negano la possibilità della creazione qui ed ora di una economia alternativa al mercato capitalistico proprio perché la pervasività del sistema economico vigente non lo consentirebbe se non nella forma di una sottoeconomia mercantile ad alto tasso di autosfruttamento.

Altri interventi, altrettanto differenziati e compositi, hanno posto l'accento sulla difficoltà attuale di definire il luogo del conflitto: ad esempio Salvo Vaccaro sottolineava che oggi l'asse dello sfruttamento e dell'oppressione veda una secca contrapposizione tra nord e sud del mondo (o, se si preferisce, tra centro e periferia) in ragione della quale noi, anarchici del nord, dobbiamo approntare strategie e modalità d'intervento affatto nuove. Francesco Carlizza ricordava come le dislocazioni produttive ed i processi di esternalizzazione abbiano cambiato la composizione di classe, costringendo milioni di persone a diventare imprenditori di se stessi (possessori di partita IVA e para-subordinati). Se a questi si aggiunge la fascia dei lavoratori in affitto, soci di cooperative ecc., ci rendiamo conto che anche l'ipotesi della centralità della classe operaia deve essere rivista in virtù della modernità che lo scontro sociale attuale richiede. Partendo da presupposti simili, Maria Matteo sviluppava il discorso che per gli anarchici federati è necessario trovare una coesistenza tra forme di conflittualità storiche del movimento operaio, chiaramente in senso autorganizzato, e le pratiche politiche e sociali dell'autogestione anticapitalistica. Per Maria, infatti, così come non tutto il sindacalismo è accettabile nelle forme storiche e presenti che si è dato, così anche non tutte le ipotesi autogestionarie sono di per sé rivoluzionarie, a meno che non si pongano la necessità del superamento della società capitalistica. Quello che importa sottolineare è che né l'una né l'altra costituzione del conflitto sono adeguati, da soli, a promuovere il cambiamento, un cambiamento che trova il suo innesco nella capacità di negazione prefigurante della realtà esistente, nella ridefinizione dello spazio dell'utopia, nella capacità dell'anarchismo organizzato di essere soggetto politico.

Altri interventi (Salvo Vaccaro in particolare, ma anche Enrico Ranieri), meno interessati o meglio, meno convinti, e della necessità e della possibilità di una trasformazione complessiva e radicale del mondo in cui viviamo, partivano dall'accettazione implicita dei caratteri costitutivi della post-modernità (già connotare il periodo in cui viviamo come post-moderno è un criterio di analisi): il paradigma fatto proprio è quello della contrazione del tempo futuro a tempo eternamente presente. Secondo questa ipotesi l'unico margine di azione è il qui ed ora, da cui derivano due conseguenze immediatamente determinabili: un orizzonte esclusivamente riformistico (nel senso alto del termine) della prospettiva politica e l'accettazione di forme di costituzione altra delle relazioni umane, politiche ed economiche che qui ed ora si possono dare. In questa ipotesi politica tutte le forme di "controeconomia" che si danno, anche quelle di parti politiche distanti dal movimento anarchico, sono o potrebbero essere dei corpi liberati internamente al sistema capitalistico dominante. L'esempio zapatista, le mag ... sono i pezzi di questa di questa struttura: tutto sta nella capacità di renderle dominanti. Secondo questa ipotesi politica la FAI non può che essere nulla più che uno strumento di stimolo socio-culturale.

I metodi della trasformazione: per quanto riguarda i metodi, si può ben capire come siano necessariamente collegati e dipendenti dai contenuti e dalle culture organizzative che si danno.

Insurrezione popolare (Walter Siri), uso della violenza, tempi e luoghi, rivoluzione come processo o come momento sono stati gli argomenti principali della discussione. Se, nel merito, come è ovvio, le differenze interpretative sono state molteplici, su di un punto l'accordo era comune: necessità della costruzione di una società diversa richiede necessariamente una costante ricerca di trasformazione, se vogliamo chiamarla così, antropologica. Il che non significa che ci dovremmo proiettare in una futuribile società paradisiaca o pacificata, tutt'altro, ma che dobbiamo perlomeno immaginarci che, se dovessero scomparire, come di incanto, polizie, eserciti, carabinieri, servi e padroni, il sentimento comune non sarebbe quello del panico più profondo, come molti proverebbero in questo momento, ma una gioia smisurata: il tutto richiederebbe una buona dose di fiducia tra la popolazione mondiale.

Concludo con ciò che ho detto al convegno: per pensare ad una trasformazione sociale in senso rivoluzionario occorre riappropriarci del senso del futuro e per fare questo bisogna 'dare corpo' all'Utopia. Bisogna cioè, a mio parere, immaginarsi concretamente la società che vogliamo e comunicarla al resto dell'universo, sapendo bene che non verrà data una volta per tutte né che sarà una società statica. Per fare questo bisognerebbe mettere insieme i pezzi migliori delle nostre storie passate e presenti (sindacalismo, autorganizzazione politica e sociale, lotte ambientali e femministe...)

Infine, non ho mai creduto che il comunismo anarchico fosse la divisione sociale della sfiga, ma come sostiene un caro amico: un doccia Jacuzzi per tutti!

Pietro Stara



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