Da "Umanità Nova" n.5 del 13 febbraio 2000
Campo profughi di Comiso: la testimonianza di un volontario
Grossi cesti di mele marce
A partire dal 20 giugno 1999, dopo oltre un mese di estenuanti trattative con
la Protezione Civile, abbiamo svolto come volontari, totalmente indipendenti
dalla Missione Arcobaleno, attività di assistenza legale (A.S.G.I. -
I.C.S.) ed orientamento dei profughi kosovari giunti alla base di Comiso ai
primi di maggio.
La situazione che abbiamo trovato al momento del nostro arrivo non era molto
dissimile da quella che alcuni filmati hanno mostrato nei campi Arcobaleno in
Albania, anche se le condizioni all'esterno del campo erano ben diverse.
Ovunque disordine ed approssimazione nella distribuzione dei beni ai profughi,
carenza dei servizi essenziali (cibo e acqua in particolare), atteggiamento
militaristico delle forze Arcobaleno che dovevano assistere i profughi.
All'inizio, già subito dopo il nostro ingresso, abbiamo verificato la
totale assenza di qualsiasi informativa legale sulle diverse possibilità
di soggiorno offerte ai profughi, e nessuno era informato delle reali
difficoltà di inserimento in altri paesi europei, dove pure molti
asserivano di volersi recare, a causa del trattato di Schengen e della
Convenzione di Dublino. Una volta accolti in Italia, infatti, nessuno di loro
poteva avere possibilità di ingresso legale in altri paesi dell'Unione.
Registravamo poi una gestione del magazzino quanto meno strana. Nel corso di
ripetute visite presso il magazzino situato nella zona americana della base,
rilevavamo all'interno della struttura la presenza di alcune giovani profughe
che non sembravano impegnate in alcuna delle attività di stoccaggio e
distribuzione dei materiali, ma che piuttosto sembravano trascorrere il loro
tempo libero in compagnia di operatori e di volontari destinati a svolgere la
propria attività presso quella struttura.
Nelle stesse occasioni le medesime ragazze venivano successivamente incontrate
al di fuori del magazzino mentre rientravano nei loro alloggi trasportando
sacchi pieni di vestiti e scarpe. In ogni caso non apparivano chiari i criteri
di distribuzione dei materiali a tutti gli altri profughi, e gli addetti
sembravano comportarsi più come privati dispensatori di favori e regali,
piuttosto che come incaricati di un pubblico servizio. Di contro, molti
kosovari da noi visitati nei loro alloggi risultavano privi persino dei beni
essenziali e asserivano di non essere informati della possibilità di
accedere a beni distribuiti presso il magazzino.
Appariva comunque sorprendente il clima del tutto informale e promiscuo che si
percepiva chiaramente all'interno di una struttura preposta a fornire un bene
essenziale e delicato.
Alcuni profughi che avevano operato all'interno della struttura hanno
confermato queste impressioni negative ricevute dagli scriventi, aggiungendo
che in talune occasioni erano stati testimoni oculari di rapporti "non formali"
tra addetti al magazzino e profughe. Altri profughi che lavoravano all'interno
del magazzino asserivano che le firme che risultavano apposte alle bolle di
consegna della merce risultavano false, in quanto ben diverse dalle firme da
loro apposte al momento del ritiro del permesso di soggiorno presso gli uffici
della Questura.
Ovunque una diffusa omertà sui fatti che apparivano sempre più
evidenti, e cresente senso di fastidio nei nostri confronti da parte della
direzione del campo.
Nessuno dei profughi si dimostrava disponibile tuttavia a testimoniare, tutti
facevano poi ritorno in Kosovo non appena finita la guerra, e l'unica
possibilità di riscontro di questa denuncia - se qualche autorità
la vorrà svolgere - rimane oggi la verifica degli inventari con il
confronto tra le firme apposte (assieme a quelle del direttore del campo e del
responsabile del magazzino) sulla bolla di consegna delle merci e quelle
apposte nella copia dei permessi di soggiorno (che dovrebbero essere ancora
agiti della Questura di Roma).
In una occasione poi il magazzino, pare a seguito di reiterati tentativi di
furto, veniva aperto dagli stessi operatori della Protezione civile e quindi
vandalizzato da alcuni profughi chi per accaparrarsi i beni di maggior pregio
deterioravano irrimediabilmente le merci (ritenute) di minor valore.
Questi episodi sono documentati da numerose foto scattate da Battaglia della
Caritas e già in possesso dell'autorità giudiziaria di Ragusa che
su queste vicende ha aperto più inchieste.
Esattamente come successo a Valona ed in altri campi albanesi, ma a Comiso la
presenza della mafia non assumeva certo le caratteristiche della mafia albanese
- che era libera di scorrazzare all'interno dei campi ed ospitava perfino le
orze di sicurezza italiane(!).
Malgrado l'assenza di una pressione ambientale lontanamente paragonabile (o
forse era paragonabile?) a quella di Valona, in sostanza , lo scempio del
magazzino derivante dalla sua intempestiva apertura da parte di operatori della
Protezione civile, causava sprechi enormi e rendeva praticamente impossibile
ricostruire l'intera contabilità interna del movimento dei beni.
A seguito delle nostre denunce e di alcuni interventi della stampa scoppiava
già in settembre il caso Comiso, ma l'attenzione dei media durava poco e
tutto sprofondava presto nel dimenticatoio, dove probabilmente si troverebbe
ancora oggi, se non fosse esploso nel frattempo il caso Valona, con una forza
ed una concretezza tali da mettere in discussione l'intero operato della
Missione Arcobaleno. Altro che "poche mele marce"!
Fino ad oggi, tuttavia, dopo essere stati ascoltati nel mese di settembre, non
abbiamo più notizie dei diversi procedimenti avviati dalla Procura di
Ragusa e l'attenzione della magistratura sembrerebbe concentrarsi più
sui criteri di gestione dei fondi affidati al comune di Comiso, piuttosto che
sulla attività della Protezione civile operante sia all'interno che
all'esterno della base.
Chi vorrà andare sino in fondo e accertare tutte le
responsabilità?
Fulvio Vassallo Paleologo - A.S.G.I.
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