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Da "Umanità Nova" n.8 del 5 marzo 2000
Processo Marini
Un giudice e i suoi teoremi
Volge al termine in questi giorni il processo intentato dal giudice romano
Marini contro oltre 50 anarchici: tutto iniziò il 17 settembre del 1997
quando, dietro mandato di cattura emesso dai sostituti Ionta e Marini
scattarono una serie di arresti. L'accusa era per tutti di aver costituito una
banda armata denominata O.R.A.I. (Organizzazione Rivoluzionaria Anarchica
Insurrezionalista), dedita ad attentati, rapine, sequestri di persona. La
faccenda, già allora, nonostante la gravità delle imputazioni,
produceva un irresistibile effetto comico: la costituzione di una banda armata
da parte di un giudice della Repubblica Italiana. Infatti la sigla O.R.A.I.
è del tutto nuova e compare per la prima volta nelle carte
dell'istruttoria del fantasioso giudice romano. Il teorema di Marini, al di
là delle imputazioni per fatti specifici, si regge sulla presunzione che
gli arrestati e gli imputati facciano parte di questa banda immaginaria. Una
favoletta che il giudice sostiene grazie alle dichiarazioni di una pentita, che
peraltro sia in fase istruttoria che nella parte dibattimentale vera e propria
non se la cava poi troppo bene: le sue dichiarazioni sono spesso lacunose,
frammentarie, contraddittorie al punto da mostrare chiaramente che le imbeccate
poliziesche non avevano funzionato nel migliore dei modi.
I tempi dell'istruttoria e del processo si dilatano all'infinito: Marini
è probabilmente consapevole che la sua inchiesta non ha basi troppo
solide e prende tempo, sperando di acquisire elementi che rinsaldino il proprio
castello accusatorio. Infatti l'accusa di associazione sovversiva e di banda
armata rischia di risultare poco credibile. Nel frattempo la maggior parte
degli imputati viene scarcerata per vizio di forma e restano in carcere solo
quelli che già stavano scontando condanne per altri reati.
In questa seconda metà di febbraio Marini ha svolto la propria
requisitoria finale e ha presentato richieste di condanna che vanno dall'anno e
mezzo all'ergastolo.
Nelle sue conclusioni Marini muta in parte strategia, mette da parte la
fantomatica O.R.A.I., e sviluppa il proprio teorema sostenendo che la
colpevolezza degli imputati deve necessariamente essere evinta dalla
volontà proclamata in scritti, documenti e dichiarazioni di abbattere lo
stato: tale volontà sarebbe in se sufficiente a dimostrarne le
intenzioni e la concreta pratica. Il PM giunge a dichiarare che la sigla della
banda armata potrebbe anche non esistere e che "non è necessario che gli
atti di violenza si manifestino, non devono necessariamente assumere valenza di
reato: basta l'atteggiamento politico". Come anni fa recitava la
pubblicità di un noto lassativo: basta la parola! La tesi di Marini
è sostanzialmente che dall'idea dell'abbattimento delle istituzioni, che
è la base dell'associazione sovversiva, si passi poi necessariamente
agli atti violenti e alla banda armata. Tra le chicche della requisitoria
spiccano i numerosi tentativi di parare la possibile accusa di avere un
atteggiamento persecutorio nei confronti degli anarchici, contrapponendo agli
imputati la FAI, che secondo il fantasioso PM sarebbe rispettosa delle regole
democratiche. Il giudice Marini farebbe meglio ad usare altri argomenti per
coprire le proprie infamie. Le regole democratiche sono quelle che producono
giudici, tribunali, carcere: vanno bene per un pubblico accusatore non
certamente per un'organizzazione rivoluzionaria come la FAI.
Luna
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