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Da "Umanità Nova" n.9 del 12 marzo 2000
Inflazione
L'eterno ritorn(ell)o
La risalita dell'inflazione allo 0,4% in febbraio, cui corrisponde una
variazione su base annua del 2,4%, ha fatto esplodere un acceso dibattito sulla
politica del governo. La Cisl in particolare ha approfittato dell'ennesimo tema
per attaccare D'Alema, minacciando lo sciopero generale nel caso non vengano
assunti immediati provvedimenti. I media di parte governativa hanno invece
cercato di far rientrare l'allarme, ipotizzando un rincaro dei prezzi dovuto
esclusivamente all'impennata del prezzo del greggio, che ha sfiorato i 29
dollari al barile sulla piazza di Londra e superato i 32 sulla piazza di New
York. Nessuna delle due parti ha completamente ragione, naturalmente, e neanche
completamente torto. Sarà bene dunque provare a ragionare sulla
situazione.
Il target dell'inflazione a livello europeo e posizionato al 2%. Ogni
sforamento viene considerato una minaccia e l'Italia, su questo terreno, torna
ad essere a rischio. Il prezzo della benzina ha toccato nuovi massimi storici,
in termini nominali, ma anche in termini reali la benzina non costava cosi
tanto dal 1987. Il petrolio ha raggiunto livelli di prezzo che non toccava
dalla guerra del Golfo e soltanto un intervento dell'Opec mirato all'aumento
della produzione può fare ritornare indietro le quotazioni nel breve
periodo. Per i paesi dell'area euro il rincaro del greggio subisce un effetto
moltiplicatore per la contemporanea rivalutazione del dollaro, valuta in cui
viene fatturato il petrolio stesso. La debolezza dell'euro contribuisce dunque
ad aggravare i problemi, facendo salire i rischi di imbarcare inflazione
importata.
Del resto la debolezza dell'euro non può essere considerata casuale.
L'economia americana tira da otto anni a livelli impressionanti, pur con tutti
i limiti e le contraddizioni che elencava pochi giorni fa sul Manifesto Bruno
Cartosio. L'economia europea viene invece da otto anni di politiche monetarie
restrittive, cure draconiane che hanno rischiato più volte di far morire
il paziente. Per favorire una cura ricostituente, la politica monetaria si e
ora un po' allentata (almeno fino all'anno scorso), i tassi d'interesse sono
scesi, eppure l'economia fatica a ripartire. Il 1999 ha visto l'economia
italiana crescere dell'1,4% ed il governo ha gridato al trionfo, perché
pensava di non andare oltre l'1,2%. Negli altri paesi dell'Ume le cose vanno un
po' meglio: il Pil europeo e cresciuto in media del 2,1% nel 1999, con punte
del 3,7% in Spagna e 2,7% in Francia.
Adesso anche Germania e Italia si stanno rimettendo in moto, ma e evidente la
riluttanza della Bce nell'alzare nuovamente i tassi, dopo lo 0,25% di novembre
e lo 0,25% di febbraio. Alzare ulteriormente significa freddare sul nascere i
primi timidi segnali di ripresa. I tassi americani invece sono nuovamente sulla
rampa di lancio: Greenspan ha alzato già di un punto pieno, in 4
riprese, dalla fine di maggio '99, all'inizio di febbraio 2000. I tassi
americani sono ora posizionati al 5,75%, un quarto di punto in più
rispetto al settembre '98, al momento dello scoppio della crisi russa e del
sud-est asiatico. E già si parla di un nuovo aumento per il 28 marzo,
nel tentativo di frenare un'economia ritenuta troppo esuberante. È
evidente che l'euro non può tenere il passo del dollaro: oggi un titolo
del Tesoro americano rende almeno l'1,5 - 2% in più dell'analogo titolo
europeo. I capitali vengono attratti oltreoceano sia per le ulteriori
prospettive di rivalutazione del dollaro rispetto all'euro (che sembra
destinato a scendere da 0,97 a 0,94 centesimi rispetto al biglietto verde), sia
per la forza d'attrazione del Nasdaq, il listino simbolo della new economy
tecnologica (passato in poco più di un anno da 2000 a 5000 punti).
Mentre anche in Europa sembra stia per sbarcare la new economy, i rischi di
ripresa dell'inflazione non vanno dunque sottovalutati, sebbene vada fatta
chiarezza rispetto agli interessi in gioco.
L'inflazione rappresenta infatti un fenomeno assai poco neutrale, a seconda
della conformazione sociale di una società. Storicamente l'inflazione
è stata usata dai padroni, per vanificare le conquiste salariali della
classe operaia, e dallo stato, per svalutare in termini reali l'alto debito
pubblico contratto durante una guerra. Negli anni '70 il meccanismo
redistributivo dell'inflazione è stato bloccato dalla scala mobile, che
ha addirittura funzionato al contrario: non solo difendeva il salario reale di
tutti i lavoratori e le pensioni dei pensionati, ma aumentava addirittura il
salario per i livelli più bassi. Per questo e stata attaccata
frontalmente con tutti i mezzi e alla fine cancellata. Il ritorno della
contrattazione salariale a livelli più compatibili con l'accumulazione
del capitale ha finito per fare registrare ai salari un forte ritardo rispetto
ai profitti, alla rendita finanziaria, all'inflazione reale. Hanno ragione
dunque i giornali dei padroni a non preoccuparsi più di tanto della
ripresa dell'inflazione: essa oggi rappresenta un fenomeno d'importazione, non
ha cause interne, non corrisponde ad una ripresa impetuosa dei consumi o ad un
ciclo rivendicativo sindacale. La subordinazione dei lavoratori alle pratiche
vergognose di collaborazione sindacale e cosi profonda che nulla può
impensierire gli altoparlanti del potere.
Le pratiche concertative degli anni '90 hanno depotenziato qualunque spinta
salariale. Oggi la produttività del lavoro nel sistema Italia e tra le
più attraenti del vecchio continente, alla pari di quella Usa, Non ci
sarebbe dunque da stupirsi se la new economy riuscisse a decollare sfruttando
tutti i vantaggi della old economy: una sindacato completamente subalterno, una
classe operaia rassegnata, salari da anni '50.
D'Antoni attacca D'Alema chiedendo che venga sterilizzato il prezzo della
benzina, abbassando l'enorme quota assorbita dal peso fiscale. I conti pubblici
dell'Italia lo possono permettere: il rapporto deficit/pil e risultato a fine
anno pari all'1,9%, un dato sorprendente vista la previsione governativa di un
rapporto del 2,4% ancora nella primavera scorsa. Sulla spesa hanno inciso i
20.000 miliardi in meno pagati come interessi sul debito e sulle entrate i
10.000 miliardi in piu introitati come tasse. Ci sono dunque le risorse per
attutire l'impatto inflazionistico del rincaro del greggio. Ben diverso e il
discorso per quanto riguarda i prezzi delle tariffe: e ben difficile pensare
che le aziende ex-pubbliche, fresche di privatizzazione, siano disponibili a
rispettare i tetti d'inflazione programmata indicati dal governo. La
sostanziale inutilità delle numerose e costosissime authority presenti
nei vari settori dimostra che, una volta rotti gli argini, nulla può
essere fatto contro il libero dispiegarsi delle forze del mercato. In questo
caso il rimedio comune dei vari governi e scontato: si modula il sistema di
tariffazione delle bollette in modo da dissimulare gli aumenti reali, e quando
e necessario si manipola il sistema di misurazione dell'inflazione, in modo da
non registrare quella reale. Un paniere per ogni esigenza, verrebbe da dire.
Tutto questo può essere messo davvero in crisi in un solo modo: una
ripresa massiccia delle lotte e delle rivendicazioni salariali, che recuperi il
gap accumulato in questi anni e riporti l'iniziativa operaia al protagonismo
sociale del passato.
Renato Strumia
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