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Da "Umanità Nova" n.10 del 19 marzo 2000

Dibattito
L'utopia in azione. Dialettica della conflittualità o conflitti di sottrazione?

È buona cura cercare di sfuggire alla trappole ideologiche. Noi anarchici, ad esempio quando ragioniamo da un punto di vista specifico, spesso vi cadiamo ingenuamente. Saremmo disposti ad affermare con forza la nostra ostilità irriducibile e pregiudiziale nei confronti di ogni autorità costituita o costituenda, a maggior ragione se tale autorità prende il nome di stato o dell'odiato padrone di ottocentesca memoria. Certo poi ci muoviamo per incontrarci e complottare usufruendo di autovetture di quello stesso odiato padrone o delle ferrovie costruite dallo stato con il quale non intendiamo assolutamente entrare minimamente in contatto... biglietto escluso.

Non sono così masochista da volermi ridicolizzare a tal punto, tuttavia tale premessa sarcastica intende avanzare una tesi relativa non alla nostra ideologia, ma alla nostra pratica concreta di individui sì anarchici, ma immersi nei vincoli del reale con tutto il carico di contraddizioni e attriti con la nostra idea "pura", ciò che non fa che alimentarla insieme alla nostra tensione utopica e incoercibile.

La tesi è che il momento contrattuale della conflittualità sociale è legittimante l'ordine sociale. Se contrattiamo qualcosa con qualcuno ne legittimiamo l'esistenza perché, non potendolo ignorare, lo prendiamo in considerazione elevandolo a nostro avversario (o antagonista, o addirittura nemico) con il quale ingaggiare un intelligente braccio di ferro per strappare qualcosa di opportuno dalla nostra matrice di auspici (politici, sociali, economici, ecc.).

Chi fa pratica sindacale è immerso in tale dilemma proficuo e nient'affatto paralizzante, perché la conflittualità non è l'alba del sol dell'avvenire, bensì è il tran tran, il ritmo con cui si dà il sistema di obbligazioni del potere statuale-capitalistico contemporaneo. Proprio questo ritmo fisiologico, affatto preludio al cedimento sotto il peso delle contraddizioni acuite dai conflitti (sarebbe una legge idealistica di filosofia della storia che sottende i processi già fatalmente diretti verso una fine: la dialettica hegelo-marxiana), è l'oggetto del gradualismo malatestiano che deve fare i conti con una lotta per l'allargamento degli spazi di libertà compatibili con l'insieme social-statuale (rafforzare i soggetti nella lotta prima che essa precipiti su un terreno di sicura sconfitta visti i rapporti di debolezza, per così dire), la quale lotta al tempo stesso rafforza la capacità mobile e metamorfica di quella macchina mutante che è il capitale nel suo esercizio di sussunzione reale.

Se il lavoro è l'unico percorso attraverso cui si dà il ricambio organico con la natura - come recita Marx sulla scia di Aristotele: ma è ancora valida per noi tale prospettiva filosofica e analitica? - allora una conflittualità gradualista, mentre costruisce forza per erodere potere, nel contempo rafforza l'identità del lavoro funzionale alla riproduzione allargata, che va ben oltre il consumismo dei tempi contemporanei, in quanto la sussunzione odierna si esercita sulla nuda vita, ridotta a carne e gangli nervosi messi sotto pressione per valorizzare i propri prodotti innestandoli in un processo macchinico di cui non controlliamo se non parzialmente l'esito: pluspotere espropriatoci.

Il gradualismo, sia nella forma della lotta politica, che in quella conflittuale anarcosindacalista (che sostanzialmente contratta i margini di lotta possibile in vista di obiettivi praticabili, al di là se si firmano o meno accordi provvisori), sperimenta libertà allargate in tempi contingenti. Ma non bisogna illudersi più di tanto. Non sarà sul medesimo piano di continuità che l'allargamento degli spazi di libertà, conseguiti attraverso sospinte e rilanciate conflitti graduati, condurrà alla trasformazione qualitativa dell'esistenza.

Il gradualismo radicale non può però essere contrattualista in senso sindacale perché dovrà prepararsi per un salto di qualità che veda, se siamo fedeli all'utopia, l'abolizione del lavoro salariato, e quindi la liberazione dal lavoro - e cioè la libertà dell'agire - l'abolizione della misura di equivalenza del valore (denaro sotto qualsiasi tipologia) e l'abolizione dell'appartenenza a una entità statuale (cittadinanza), giusto per fare esempi sia nell'ambito delle cose economiche che in quello delle cose politiche, ma nella consapevolezza che per la nostra teoria la distinzione è di ordine metodologico e non sostanziale.

Così si apre un bivio altrettanto radicale tra contrattazione (anarcosindacalista, ma in genere sindacale) e gradualismo politico, in quanto i due percorsi seguono logiche e tempi non compatibili, ponendosi su livelli incommensurabili tra mezzi e fini: da una parte, una dialettica della conflittualità (allargare spazi di libertà strappandoli al potere economico o politico), oppure dall'altra un agire di sottrazione dalle griglie dialettiche (recuperanti e metamorfiche) del processo macchinico che concatena a vantaggio di stato e capitale ogni attività umana.

Ciò che intendo sottolineare è che il metro con cui valutare la congruenza strategica di un nostro agire nella società, non può essere la conflittualità antagonista - mero dato di fatto, non valore a se stante, in quanto respiro dell'ordine sociale che gli appartiene e gli pertiene, e che quindi non va esaltato o ricercato come qualcosa che valorizza ulteriormente la nostra specifica strategia, ma che va giudicato per quello che è, tattica permanente nello scontro su terreni a noi infidi perché regno della dialettica, non dell'utopia in azione - quanto piuttosto la capacità sperimentale di attivare pratiche libertarie attraverso la sottrazione di spazi, modelli, tempi di vita, forme organizzate nelle varie sfere della società, dal dominio statale e capitalistico, non per esaltare gli esperimenti praticati, transitori, mobili, precari e parziali per definizione, quanto per socializzare qui e ora utopie altre possibile attraverso la pratica, più che attraverso la parola (la propaganda).

La tipologia dei conflitti di sottrazione, per così dire (qualcuno li chiama di esodo, ma il termine è insufficientemente laico, di predestinazione biblica, seppure più vivido e immaginifico), concerne prevalentemente la stipula di nuovi legami sociali che disidentificano gli individui dalla griglia di appartenenza cittadina disciplinante i margini di libertà nella strettoia binaria diritti/doveri. Paradossalmente più si parla di allargamento della cittadinanza, di inclusione degli stranieri entro quella griglia, più si riducono gli spazi di libertà che vengono delimitati dal gioco delle regole normanti.

Allacciare legami sociali diversi significa invece sottrarsi alla pressione del giudizio giuridico - lo posso fare? è vietato? è lecito? - ed alla pressione della mercificazione di mercato - quanto vale? a quanto equivale? In tal senso, ogni sforzo destinato a sottrarre risorse dall'immissione nei circuiti di mercato - tempo libero, innanzitutto, ma anche lavori e orari sfuggiti alle trappole della quantificazione e della monetizzazione omologativa - significa creare nuovi legami sociali che "collano" al di fuori della norma sociale vigente, anche se tollerati proprio perché precari, parziali, contingenti.

Quel che potrebbe sembrare una riserva indiana a livello individuale o di piccoli gruppi, tuttavia non disprezzabile perché disintossicante, si rivela comunque una arma di crescita delle capacità di autogoverno degli individui nel loro essere comunitari, senza le quali ogni conflitto è destinato a rimanere confinato nella dialettica protagonista/antagonista con l'obiettivo di successo (la vittoria a qualunque costo fa premio sulla qualità della condizione posteriore al successo della lotta), mentre nel nostro caso ciò che è pertinente è l'acquisizione di saperi e saper fare radicalmente autonomi, e poi quindi anche contro, quando il margine di tolleranza inevitabilmente sfumerà. Solo che a quel punto, il terreno conflittuale non è connesso soltanto ai nostri rapporti di forza tesi al successo, ma si lega molto più profondamente e intimamente ad uno stile di vita diffuso che viene avvertito come qualcosa di qualitativamente irrinunciabile, e quindi degno di essere difeso come se fosse in ballo la nostra esistenza, che non è solo questione di catene materiali, ma anche di catene simboliche, a condizione che si sia data la possibilità almeno per una volta di farne a meno, sperimentando la praticabilità di un legame sociale altro che si allaccia non per alleanza, per contrapposizione, ma per propria posizione progettuale che pratica la sottrazione come linea di fuga per la vittoria, incrinando l'ordine simbolico dell'immaginario istituito nella connessione vitale non solo con un orizzonte utopico, ma soprattutto con uno stile di vita qui e ora irriducibile a venire rappresentato come un bene di consumo intercambiabile, poiché legato fortemente alla ragion d'essere della propria vita.

Salvo Vaccaro



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