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Da "Umanità Nova" n.11 del 26 marzo 2000
Accordo Fiat-General Motors
Piccolo mondo antico
L'alleanza siglata il 13/3 tra la Fiat e la General Motors ha provocato
reazioni di timbro molto diverso.
Analisti, gestori e piccoli azionisti sono stati profondamente delusi dal
risultato finale: da mesi accumulavano il titolo in vista di un accordo di
grande portata, che portasse alla vendita di Fiat Auto e all'introito di
cospicue plusvalenze da investire in settori più redditizi, come
telecomunicazioni e finanza. Dall'inizio dell'anno il titolo Fiat era salito
del 25%, contro un andamento negativo (-12%) dell'indice automobilistico
mondiale. Alla vigilia del C.d.A. decisivo, Fiat si era portata a 35,90 euro,
il suo massimo da oltre un anno a questa parte. Tutti si aspettavano una forte
impennata alla notizia ufficiale dell'accordo di vendita: invece nel giro di
tre giorni il titolo e arrivato a perdere il 20%, ritornando per qualche
momento sotto i 30 euro.
La reazione di politici e sindacalisti e stata invece quasi generalmente
positiva, quasi come se l'accordo risolvesse in senso positivo molti patemi
d'animo covati sotto la cenere per mesi e mesi precedenti. Se il governo non
può che allinearsi alle scelte della famiglia industriale più
blasonata d'Italia, i sindacalisti più noti esprimono soddisfazione per
la presa d'atto che la Fiat non può camminare da sola e la conseguente
apertura internazionale del capitale italiano, senza perdita di autonomia. Il
mondo politico e sindacale si dichiara dunque soddisfatto per la scelta degli
Agnelli di restare ancorati al settore dell'auto, almeno per qualche anno
ancora, con la conseguenza di gestire una eventuale fuoriuscita in tempi e modi
più morbidi di quelli connessi ad una vendita secca. Stabilimenti
produttivi e livelli occupazionali hanno così, secondo questa teoria,
qualche chance di tenuta e di sopravvivenza.
In realtà la decisione finale non era e non è scontata e molti
dettagli dell'accordo restano nel vago, quando non addirittura segreti. Vale la
pena ricordare che l'ingresso di Mannesmann nell'Olivetti, nel settembre 1996,
era corredato da un patto parasociale, mai reso noto, che prevedeva la cessione
di Omnitel ai tedeschi entro la fine del 1999: cosa che si è
puntualmente verificata con sei mesi d'anticipo.
In questo caso, come è noto, sembra prevalere a prima vista un'ipotesi
contraria: la Fiat cede subito a GM il 20% di Fiat Auto (in cambio del 5,15% di
GM stessa) ed ha l'opzione (non l'obbligo) di vendere il residuo 80% allo
stesso partner, a partire dal 42simo mese fino a 9 anni successivi all'intesa,
ai prezzi correnti di mercato. L'accordo si configura quindi come uno scambio
di carta, che porta la GM ad essere il secondo socio dopo gli Agnelli (che
controllano il 30% tramite Ifi e Ifil), prima di Generali (2,86%) e Deutsche
Bank (2,1%), due soci che pur facendo ancora parte del patto di sindacato (a
differenza di Mediobanca che ne è uscita), non sono molto affidabili
nelle scelte di voto dopo la recente rottura del patto tra l'Avvocato e Cuccia.
Visto e considerato che l'alleanza riguarda solo Fiat Auto, resta il problema
del controllo della Fiat S.p.A. (la holding che controlla anche Iveco, Toro,
Magneti Marelli, Case-New Holland, ecc.). La fragilità della struttura
societaria è nota: la famiglia Agnelli controlla non più del 25%
dei diritti di voto e in caso di opa da parte di un eventuale scalatore il
patto di sindacato verrebbe sospeso, come previsto dalla legge Draghi. Questo
implica che oggi Fiat S.p.A. è più contendibile di prima sul
mercato: basterebbero 10 mila miliardi per lanciare un'opa tesa a conquistare
il 40% del capitale con diritto di voto, e poi fare il classico spezzatino per
tenere quello che interessa e vendere tutto il resto al miglior offerente. Il
crollo dei titoli post-accordo potrebbe rendere l'operazione ancora meno
costosa e c'è chi ipotizza che la Daimler-Chrysler potrebbe anche
decidersi a farlo.
La Daimler-Chrysler è infatti la grande sconfitta di questa trattativa,
bruciata sul filo di lana di un accordo che fino a poche settimane fa sembrava
addirittura il più probabile. Evidentemente i tedeschi che governano il
gruppo avevano chiesto la vendita secca della divisione auto, con totale
emarginazione della proprietà e del management torinese.
L'integrazione tra Daimler-Chrysler e Fiat sarebbe stata sicuramente più
complementare. La Fiat è infatti forte nel segmento delle utilitarie, la
Chrysler nelle auto di media cilindrata, la Daimler nella gamma alta, con i
modelli Mercedes. L'alleanza anche nel settore dei camion tra Iveco e Daimler
avrebbe creato un vero colosso mondiale nel settore. Invece la GM ha battuto la
concorrenza promettendo autonomia anche per il futuro, riconoscendo una
valutazione molto alta per Fiat Auto (24.000 miliardi, il 45% del fatturato
annuo, un rapporto molto elevato), mettendo in campo la sua forte penetrazione
commerciale negli States (possibile rilancio dell'Alfa Romeo), accettando
quindi un ruolo da comprimario per un lungo periodo transitorio, sul modello
"federativo" dimostratosi vincente anche in precedenti esperienze (Isuzu,
Subaru, Suzuki). Alla GM interessava frenare il rafforzamento dei concorrenti
(Ford e Daimler-Chrysler) e mantenere il primato mondiale con il suoi 8,5
milioni di veicoli annui venduti, cui si aggiungono ora i 3 di Fiat. Viceversa
i problemi di sovrapposizione produttiva e geografica sono molto pesanti: Opel
Corsa e Punto, Astra e Brava, Vectra e Marea sono modelli che si scontrano
direttamente, così come la forte presenza in Europa (dove insieme
avranno oltre il 21% del mercato) e in Sudamerica.
Dove stanno dunque i vantaggi dell'intesa, che fanno parlare di risparmi per
oltre 1,2 miliardi di dollari all'anno fino al 2003 e addirittura di oltre 2
miliardi di dollari dopo il 2005? Qui veniamo al punto decisivo: a chi
pagherà, cioè, le conseguenze di questi radiosi destini delle due
multinazionali associate. Il cuore dell'accordo produttivo vero e proprio
sarà definito nei prossimi tre mesi e porterà alla creazione di
due società in joint-venture con due obiettivi ben delineati. La prima
società si occuperà di produrre in comune motori e trasmissioni;
la seconda di trattare gli acquisti e gli approvvigionamenti dei componenti dai
subfornitori. E qui casca l'asino. Perché in un mercato mondiale
caratterizzato da un esubero di capacità produttiva molto ampio, l'unico
modo per rilanciare i profitti e risparmiare fortemente sui costi. Dato che la
capacità produttiva mondiale è di 60 milioni di veicoli e non se
ne vendono più di 50 milioni, occorre razionalizzare. La Fiat è
presente sui mercati potenzialmente più promettenti (Brasile, Cina,
India, Est europeo), ma la domanda pagante in questi paesi non è ancora
realtà. Dunque l'asse strategico resta il contenimento dei costi: non a
caso Richard Wagoner, il giovane amministratore di GM, ha voluto fortemente la
creazione di un portale Internet, in comune con Ford e Daimler-Chrysler, dove
far passare tutti gli ordini di fornitura e ribaltare, a svantaggio dei
componentisti, gli attuali rapporti di forza. Un portale Internet da usare come
una clava anche contro i concessionari (che vengono scavalcati
dall'e-commerce), dimostrando una notevole capacità, da parte della old
economy, nell'usare a proprio vantaggio i punti di forza della new economy.
Anche Fiat, con Ciaoweb, sta tentando la stessa operazione: abbattere i costi
di fornitura e di distribuzione, usando la rete come piazza virtuale dove
ottenere i margini migliori, sia in acquisto che in vendita.
È evidente quindi che i nodi sociali dell'accordo sono destinati ad
emergere soprattutto nel sistema della subfornitura, dove solo la continua
compressione dei costi può salvaguardare i contratti
d'approvvigionamento.
L'alleanza Fiat-GM ha dunque una valenza industriale prevalente, rispetto alle
tante opa selvagge della finanza più recente, ma non è priva di
serie ricadute sulla catena della componentistica. Mentre nel ciclo centrale
proseguirà quindi, impetuosamente, la logica dell'outsourcing per le
attività fuori del core-business e la cessione del ramo d'azienda per
abbattere i costi fissi, nel ciclo dell'indotto aumenterà la
competizione sul prezzo. È giustificata quindi la revisione del giudizio
dei gestori finanziari sull'andamento del titolo: il prezzo può
recuperare, perché i risparmi saranno consistenti nel medio-lungo
periodo.
Gm ha undici stabilimenti in Europa, Fiat sette in Italia e uno in Polonia,
più uno in Turchia. È difficile che alla fine del processo
d'integrazione siano ancora tutti aperti, e quelli più a rischio sono
sicuramente i più vecchi, a partire da Mirafiori e Rivalta, nel
torinese. È tutto da verificare poi l'annuncio distensivo che verranno
salvaguardate le competenze professionali legate alla ricerca e sviluppo di
nuovi modelli, presenti soprattutto a Torino e attorno al suo Politecnico,
quando uno dei fattori alla base dell'accordo è proprio la riduzione
degli ingenti investimenti necessari in questo campo per innovare la linea
prodotti. È un accordo dunque che rilancia le preoccupazioni di forti
scompensi sociali in tutte le aree tuttora auto-dipendenti e rimanda nel tempo
problemi di difficile soluzione, a cominciare da un'effettiva diversificazione
produttiva per un territorio che per troppi anni ha dovuto subire la dittatura
di un unico potere economico. Al prolungato sfruttamento economico totalitario
rischia di subentrare, oggi come ieri, una desertificazione produttiva
comparabile alle città morte inglesi o americane degli anni '80 e '90.
Un esito non proprio gradevole per una città (ex)industriale come Torino
e piuttosto discutibile anche a livello nazionale, dopo i massicci
finanziamenti a fondo perduto per trattenere sul suolo patrio gli insediamenti
produttivi, che saranno probabilmente sfruttati fino in fondo e poi chiusi e
sbaraccati. È la globalizzazione,
baby...
Renato Strumia
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