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Da "Umanità Nova" n.12 del 2 aprile 2000

Lisbon story
La New Europa liberista

Il recente vertice di Lisbona tra i capi di Stato europei, su lavoro e occupazione, si può leggere su diversi piani.
Il primo è quello del proliferare di incontri internazionali, a carattere generale o più specifico, che si stanno susseguendo in questi ultimi tempi e del risalto che ne viene dato. Si passa così dai tradizionali vertici G8, tra i paesi più potenti e industrializzati del globo, alle occasioni specifiche d'incontro, a livello mondiale, come il recente WTO e infine alle scadenze europee come questa di Lisbona. In tutte queste occasioni c'è stata una spettacolarizzazione dell'evento - in linea con altri ambiti - che propaga, dilata, materializza in qualche modo, dichiarazioni di principio, intendimenti più o meno condivisi, progettualità abbozzate sul medio e lungo periodo. Per tornare dunque a Lisbona, è un'immagine concreta e, per certi versi, rassicurante quella della "New Europa" che ne emerge, protesa verso il futuro, dinamica, progettuale e competitiva, capace di crescita, foriera di coesione sociale, ecc. ecc. Non entriamo per adesso nel merito, quello che conta - almeno su questo piano di lettura - è l'enfatizzazione dei propositi, che si sostanziano e reificano nella comunicazione dei mass-media, nella persuasione dell'opinione pubblica e nelle aspettative distorte della parte più debole e/o sprovveduta culturalmente e politicamente della working class. L'imbonimento è diventato elemento fondamentale (almeno per ora) per vincere opposizioni e resistenze alla ristrutturazione delle forme di dominio. Potenti, capi di governo e di Stato, si sono sempre incontrati per dirimere contese, mediare interessi, definire alleanze. Oggi fanno sempre le stesse cose (ovviamente a livello "globale"), ma con gran rullare di tamburi perché hanno scoperto il valore aggiunto che la spettacolarizzazione rappresenta nella battaglia politica e ideologica.

Il secondo piano è, ovviamente, quello dei contenuti. A Lisbona l'U.E. ha affrontato tutta una gamma di problemi molto concreti e rilevanti attinenti alla questione lavoro, a partire dai livelli di sviluppo economico previsto per i prossimi anni, l'occupazione, le nuove tecnologie informatiche e telematiche, la formazione della forza-lavoro, i rapporti con le imprese, il welfare, ecc., ecc. Le ricette individuate per la verità non sono state molto originali. Siamo sempre nel solco della New Economy americana (flessibilità del lavoro, riduzione del carico fiscale, libertà imprenditoriale), della liberalizzazione spinta di segmenti importanti dell'economia, temprata appena dalle necessarie e minime concessioni al residuo di politiche sociali ammesse e compatibili. C'è stato però qualche elemento di novità. In primo luogo una ripresa d'iniziativa europea su un terreno non semplice come quello dello sviluppo legato al know-how, alle conoscenze, alla tecnologia, altrettanto monopolizzato dallo strapotere USA quanto quello della leadership politico-militare. In secondo luogo il tentativo di confronto su ambiti notevolmente disomogenei, a livello europeo, come sono quelli dello sviluppo concertato tra le parti sociali, l'apparato burocratico dello Stato, il livello della pressione fiscale sulle classi sociali e le imprese, le politiche occupazionali, il sistema previdenziale e in generale il Welfare residuale. L'Europa dei Jospin, dei Blair, dei D'Alema è su questi terreni quasi altrettanto differenziata di quanto non lo sia nei confronti degli USA.

Questo ci riporta direttamente a quello che è il terzo piano di lettura e che è quello delle difficoltà legate a questo tipo di processo di integrazione strategica. Accantonerei, per una sorta di carità cristiana, le berlusconate del tipo: dieci anni di crescita al 3%, ovvero "venti milioni di posti di lavoro in più". Sappiamo tutti quale è il modello di queste previsioni: la crescita dei "five-dollars job" all'americana, ovvero dei posti di lavoro precario e ultraflessibile. Ma sarà poi vero, proprio dal punto di vista dell'efficienza capitalistica, che questo continuo impoverimento professionale e delle garanzie lavorative crea forza-lavoro più adattabile e quindi più funzionale alle esigenze dello sviluppo e dell'accumulazione? Mi soffermerei piuttosto su alcune delle direttrici indicate nell'ambizioso programma portoghese. La prima è l'attacco alle politiche di concertazione. Sappiamo benissimo che in Europa il peso e la qualità dell'interazione con il sindacato è estremamente differenziata, come sappiamo che, fatta la tara di una dirigenza di alto e medio livello organicamente collusa con i poteri forti, il sindacalismo confederale raccoglie ancora masse di lavoratori convinti di avere ancora una forma minimale di tutela dei propri interessi. Che tipo di spinte - anche contraddittorie - potrebbe scatenare una riduzione del peso macrocontrattuale degli apparati sindacali? Si aprirebbero spazi per una ricostruzione di un'opposizione sindacale più legata agli antagonismi di classe o si profilerebbe una qualche forma di deistituzionalizzazione delle grandi organizzazioni sindacali? Quale sarebbe l'effetto nei diversi paesi, nelle diverse tradizioni sindacali? Un'altra difficoltà di una certa rilevanza mi sembra essere quella della formazione, intesa come informatizzazione della scuola, come taylorizzazione di un ruolo, come è quello dell'insegnante, storicamente avulso, almeno in Italia, da una concezione "produttivistica". Gli sforzi maldestri del buon Berlinguer evidenziano difficoltà di fondo che non potrebbero che essere moltiplicate dalla varietà delle istituzioni scolastiche europee, dai rapporti reciproci tra istruzione pubblica e privata, dai variegati rapporti tra scuola e imprese.
Ancora un problema: i sistemi previdenziali, che in paesi come l'Italia sono in fase di travagliato riassetto. Come omogeneizzare processi di riassetto pensionistici che oltre a difficoltà proprie (mutata composizione demografica, sostegno alla disoccupazione) si trovano ad agire su realtà sociali profondamente diverse? I problemi poi non finiscono qui. Per ognuno degli assi d'intervento indicati a Lisbona (pensiamo ad esempio all'incidenza del lavoro nero o, in tutt'altro settore, al sostegno tradizionalmente fornito dagli Stati alle imprese) si scontrano peculiarità, livelli di sviluppo differenti e difficoltà anche culturali.

Insomma il cammino dell'Europa verso la costituzione in polo imperialista in grado di competere ad armi non troppo impari con lo strapotere americano è lungo e travagliato, ma è un percorso obbligato, forzato dalla crisi mondiale e dai grandi processi di ristrutturazione capitalistici internazionali. Non c'è posto per i vasi di coccio. Se il vaso si romperà dai suoi pezzi potrebbero emergere lotte sociali articolate e differenziate, ma vaste e significative. Se il vaso si rinforzerà potrà farlo solo a prezzo di una pressione devastante e dirompente sulla working class europea e allora si potrà ricominciare a ragionare nei termini di internazionalismo della lotta e del proletariato.

Guido Barroero



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