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Da "Umanità Nova" n.13 del 9 aprile 2000
Petrolio
Raschiare il fondo del barile
La recente riunione dell'Opec è stata piuttosto travagliata. Si trattava
di definire una strategia dopo la scelta vincente di limitare la produzione in
modo da far crescere i prezzi, scelta che ha portato il prezzo del greggio dai
10 dollari al barile del dicembre 1998 ai 30 dollari e passa di inizio marzo
2000. La coesione dei paesi dell'Opec in questo ultimo anno, per molti aspetti
tutt'altro che scontata, ha rivitalizzato il prezzo del petrolio, con buona
pace dei paesi più altamente indebitati, come Russia, Brasile, Argentina
e Messico, che avevano rischiato il crack finanziario nella precedente
situazione.
Tuttavia non tutti questi paesi fanno parte dell'Opec, il cui fronte è
guidato da una pattuglia di paesi moderati (Arabia, Messico, Venezuela),
contrapposta ad una fazione di falchi capitanati dall'Iran. Lo scontro
all'interno dell'Opec si è quindi giocato tra queste due opposte visioni
strategiche. I tre paesi moderati che abbiamo ricordato hanno un alto livello
di indebitamento estero (oltre 100 miliardi di dollari a testa Messico e
Arabia, oltre 19 il Venezuela) ed un legame molto stretto con la diplomazia
Usa, di cui sono preziose pedine nei rispettivi contesti regionali. L'Iran
invece, pur avendo avviato un processo di graduale rientro sulla scena
internazionale, con un allentamento della tensione con i paesi dell'Uem ed un
atteggiamento più distensivo persino nei confronti degli Usa, non
intende rinunciare al proprio potere di scambio con l'estero basato sulla
principale risorsa esportata: il petrolio. Meno integrato nel complesso
finanziario mondiale, meno indebitato degli altri paesi dell'Opec, l'Iran punta
a ricostruire un ruolo di potenza regionale, con potere di condizionamento
sulle politiche americane nell'area. I guai dell'Iraq ed il bisogno americano
di perseguire una strategia di bilanciamento dei poteri nell'area possono
assegnare nuovamente all'Iran un ruolo importante per gli anni a venire. La
profonda ricostruzione economica di cui necessita il paese può venire
finanziata soltanto da un oculato utilizzo della principale fonte di introiti:
da qui la pressione per limitare la produzione al fine di difendere il prezzo.
Le pressioni americane per far scendere il prezzo del greggio sono invece
espressione di un altro problema.
Gli americani hanno capito dopo due shock petroliferi che il petrolio riveste
una funzione estremamente delicata nei meccanismi del processo economico: il
livello desiderato dei prezzi si colloca ora tra i 20 e i 25 dollari, ed ogni
splafonamento da questo intervallo innesca problemi di opposta natura. Una
discesa dei prezzi troppo marcata crea problemi di insolvenza finanziaria per i
paesi produttori segnati da alto debito estero. Un rialzo dei prezzi troppo
violento e duraturo crea problemi di inflazione nei paesi consumatori di
petrolio. Un andamento troppo erratico dei prezzi sconvolge qualunque ipotesi
di programmazione dei costi e innesca turbolenza. Del resto il cartello
dell'Opec è in grado di controllare solo una parte della produzione
mondiale: Russia, Brasile, Norvegia, sono produttori importanti, i cui
interessi solo in parte coincidono con quelli dei paesi compresi nel cartello.
Viceversa molti influenti esponenti dell'Opec (a partire dall'Arabia) hanno
imponenti investimenti in Occidente e dunque un alto grado di integrazione
finanziaria nel sistema globale. Spingere sui prezzi potrebbe finire col
danneggiare proprio quelle economie dove sono stati investiti, a partire dai
primi anni `70, ingenti capitali in una strategia di diversificazione di
portafoglio. Inoltre un rincaro troppo marcato del prezzo del petrolio potrebbe
accelerare la ricerca e gli investimenti sulle fonti energetiche alternative,
minando il potere contrattuale dei paesi produttori.
È comprensibile dunque come la soluzione alla fine adottata rispecchi il
compromesso raggiunto: l'aumento della produzione si aggirerà non su
1.200.000 barili al giorno (come voleva l'Iran), ma su 1.700.000 barili come
volevano i paesi più moderati. L'aumento della produzione, pari a circa
il 7,5%, sarà però solo temporaneo: alla fine di giugno un nuovo
vertice Opec dovrà valutare l'andamento dei prezzi nel frattempo
intervenuto e ridefinire la strategia per il futuro.
La difficoltà nel raggiungere un accordo teso a ottenere una distensione
dei prezzi ha finito per alleggerire solo in parte la situazione. I prezzi del
brent a Londra sono scesi di soli 25 centesimi al barile, per poi risalire
subito dopo. È probabile che la fascia di oscillazione del prezzo si
mantenga quindi tra i 22 e i 28 dollari al barile, prima che si raggiunga un
accettabile grado di ricostituzione delle scorte. La situazione è
destinata quindi a rimanere tesa.
Del resto, le contraddizioni che si riscontrano nelle politiche di
approvvigionamento energetico dei paesi industrializzati sono sotto gli occhi
di tutti: scambio ineguale, utilizzo di fonti inquinanti, ritardi nella ricerca
di fonti alternative, sottoutilizzo di risorse ecologiche, carichi fiscali
esorbitanti su tutti i carburanti. Si continua a pagare il petrolio ai paesi
produttori ai costi dell'acqua minerale, c'è una media europea di
ricarico fiscale del 68%, si persiste nel privilegiare i sistemi di trasporto
individuali su gomma. Nello stesso tempo prosegue un processo di fortissima
concentrazione del settore petrolifero a livello mondiale. La recente fusione
tra la francese Elf-Aquitaine e la belga Total-Fina dimostra che anche su scala
europea si vanno formando i giganteschi conglomerati già esistenti negli
Stati Uniti. Anche l'Eni sarà costretta, prima o poi, a tessere
un'alleanza con qualche partner internazionale, e già sono affiorate
ipotesi di fusione prima con la francese Elf, poi con l'inglese Bp e infine con
la spagnola Repsol. La perdita del monopolio del mercato del gas (da cui
proveniva il 40% degli utili Eni) apre le porte all'ingresso sul mercato di
"nuovi" soggetti privati (Edison, Acea, Aem, tutte le aziende municipalizzate
in via di privatizzazione), che potranno distribuire direttamente il metano
acquistato su licenze e contratti dell'Eni. Il controllo delle vie del petrolio
(e dei suoi preziosi derivati) resta una componente essenziale nella politica
estera dei principali stati. Basti pensare alla complessa politica estera Usa
nel Medio Oriente, agli interventi francesi nel Centro-Africa, alla politica di
sterminio della anglo-olandese Shell in Nigeria, alla stessa politica italiana
di ricucitura con i paesi del Nord-Africa (Algeria e Libia in testa). La
ferocia russa nella repressione dei conflitti etnici nelle repubbliche
caucasiche esprime anche la necessità e la scelta politica di usare il
pugno di ferro verso tutte le minoranze e le nazionalità in qualche modo
insediate nelle zone minerarie e sopra i giacimenti petroliferi.
Il petrolio si conferma dunque ancora, anche ai tempi della new economy, una
risorsa strategica, per il cui controllo si scatenano o si provocano guerre
aperte e conflitti a bassa intensità. Nell'era della produzione
immateriale, della civiltà della informazione e del potere basato
sull'innovazione tecnologica, la sua distribuzione geografica e territoriale
continua ad essere disomogenea rispetto alla dislocazione del potere
politico-militare su scala mondiale. Come tale, il conflitto per il controllo
del petrolio sarà una ferita sempre aperta.
Renato Strumia
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