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Da "Umanità Nova" n.14 del 16 aprile 2000
Debito estero del terzo mondo
Lacrime di coccodrillo
Pare proprio che il debito estero dei paesi del terzo mondo sia diventato un
argomento terribilmente à la page negli ultimi tempi, forse da
quando Jovanotti al festival di Sanremo ha sollevato la questione a suon di
rap. Gli interventi dei cosiddetti progressisti si sono susseguiti negli ultimi
due mesi, e la recente visita in Italia del segretario delle Nazioni Unite Kofi
Annan è stata solo l'ultima occasione nella quale non si è persa
l'occasione per versare lacrime da coccodrillo sul triste destino dei paesi
"sottosviluppati", costretti a vivere sotto il giogo di interessi esorbitanti
che assorbono ogni anno gran parte delle loro risorse: risorse che, si dice,
potrebbero essere impiegate ben altrimenti in progetti di sviluppo in
società che ne hanno un disperato bisogno. Non si può fare
però a meno di notare come tale improvviso interessamento da parte della
"sinistra" attualmente al governo coincida stranamente con una campagna
pre-elettorale durante la quale la suddetta "sinistra" - largamente screditata
da quattro anni di governo nei quali i peggiori dettami neoliberisti sono
passati allegramente come difficilmente sarebbe potuto accadere sotto governi
di destra- è alla disperata ricerca di argomenti per riconquistare
almeno una parte della sua base elettorale sfiduciata e attratta da tentazioni
astensioniste. Logicamente tali argomenti devono avere un impatto emotivo
immediato e soprattutto essere sufficientemente generici, in maniera da non
compromettersi troppo: va benissimo il discorso sul debito dunque,
purché non si entri troppo nel merito.
Secondo un sistema tipicamente populista e sostanzialmente antidemocratico,
D'Alema può quindi permettersi impunemente di invitare l'ingenuo
Jovanotti di turno al Quirinale e presentare il fatto come vetrina del buon
governo progressista, salvo poi reagire inconsultamente quando al summit
dei capi di stato europei e africani tenuto al Cairo nei giorni seguenti un
Gheddafi pone la questione in termini più concreti. Il discorso del capo
di stato libico tentava di contestualizzare il problema e di porre i paesi
occidentali di fronte alle loro oggettive responsabilità, sottolineando
il fatto fondamentale che la trappola del debito è un meccanismo che
tende a riprodursi, e di conseguenza anche un'eventuale decisione per
l'azzeramento dei debiti -in assenza di correttivi ad un sistema ormai secolare
basato sul principio dello scambio diseguale- ha ben poco peso, al di là
della retorica buonista e populista. A questa obiezione sostanzialmente
ragionevole il premier italiano ha reagito con una stizza assolutamente
ingiustificata se si prendesse per buona la sua invece dubbia buona fede
terzomondista, e non ha perso tempo ad accusare Gheddafi di ideologismo e
demagogia. Ora, è curioso che qualsiasi argomentazione che si ponga al
di fuori dal claustrofobico orizzonte neoliberista -da qualunque parte arrivi-
venga immediatamente tacciata di ideologismo, come se le parole dello stesso
D'Alema non fossero a loro volta profondamente impregnate di ideologia. Del
resto il tentativo delle elités attualmente al potere di porsi al
di sopra delle parti e di far percepire la situazione attuale come
assolutamente naturale anziché come costruita e
storicamente data, unitamente all'incapacità di chi dissente a
immaginare e a rendere visibile un progetto radicalmente alternativo, è
uno dei grandi problemi di questa fase storica, se non il problema per
eccellenza.
Ritornando alla questione dell'azzeramento del debito dei paesi del terzo
mondo, è curioso notare come una delle argomentazioni usualmente
adoperate per sollevare obiezioni e dubbi sulla sua
fattibilità/legittimità è quella connessa allo stato della
democrazia in tali paesi. L'elargizione di quello che viene fatto passare come
un generoso regalo anziché come un qualcosa di dovuto, viene in
quest'ottica messo in dubbio in virtù delle carenze democratiche dei
paesi in questione. Anche qui non si può fare a meno di notare come
venga fatto un uso strumentale di un argomento che in linea di principio - e
data la genericità con la quale viene formulato - non si può non
condividere. Peccato che poi le preoccupazioni sullo stato della democrazia
passino immediatamente in secondo piano quando non conviene sottolinearle
troppo, ad esempio quando si tratta di delocalizzare industrie nostrane e di
produrre a basso costo in paesi dove le tutele sindacali e ambientali sono solo
un miraggio, peggiorando tra l'altro le condizioni materiali di vita delle
classi lavoratrici nostrane. Può accadere allora che un Veltroni in
visita in Costa D'Avorio compia il beau geste di rifiutarsi di stringere
la mano ad un capo di stato perché non democraticamente eletto
(anche qui: e come si potrebbe ragionevolmente dissentire?), ma che poi lo
stesso Veltroni se ne fotta se una decisione presa in un luogo altro -
uno dei famosi luoghi altri che si pongono al di fuori di qualsiasi
controllo democratico - getta sul lastrico migliaia di coltivatori di cacao di
quello stesso paese africano.
L'abitudine dei politici nostrani a trattare le grandi questioni solo in chiave
strumentale ai propri interessi immediati e la loro incapacità (meglio
sarebbe dire: deliberata mancanza di volontà) nel pensare progetti a
medio e lungo termine capaci di cambiare strutturalmente lo stato di
cose esistente, provoca quindi un appiattimento del dibattito che non tocca mai
il nocciolo reale dei problemi che ipocritamente si dice di voler
risolvere, ma che rimane sempre al livello dei luoghi comuni. Il problema del
debito dei paesi sottosviluppati non si risolve con proposte demagogiche il
giorno prima delle elezioni, ma ragionando seriamente su un meccanismo recente
come la globalizzazione innestato su un sistema secolare basato sullo scambio
diseguale e sul sistematico depredamento delle risorse di matrice coloniale o
post-coloniale.
E arriviamo qui alle responsabilità delle classi subalterne nostrane:
non si può sperare che problemi del calibro di quello qui trattato
vengano miracolosamente risolti dall'alto, da gente che per naturale
collocazione di classe ha tutto l'interesse a far sì che lo status
quo attuale si protragga il più a lungo possibile, anche quando,
presi da scrupoli di coscienza (veri o falsi che siano), affermano il
contrario. C'è stato un periodo storico - soprattutto l'ultimo
dopoguerra - nel quale si poteva pensare con buona dose di cinismo che il
benessere materiale dell'occidente fosse basato in buona parte sullo scambio
diseguale praticato con il resto del mondo: si pensi a questo proposito
all'atteggiamento paradigmatico di una working class come quella
statunitense che oggettivamente - in periodo di keynesismo trionfante - si
vedeva riconoscere una parte del "bottino" in cambio della pace sociale. Ma
ora, caduto l'orizzonte riformista, il sistema capitalistico è passato
ad una fase più aggressiva nella quale tende a riprendersi quelle che si
rivelano sempre più chiaramente come concessioni temporanee. È
ora che le classi subalterne nostrane ricomincino ad imparare l'ABC
dell'internazionalismo e del più sano terzomondismo: anche senza
metterci di mezzo la morale - che pure c'entrerebbe, ma forse i tempi non sono
ancora maturi per passaggi rivoluzionari di questo tipo - bisogna rendere
evidente che le lotte degli ultimi del mondo sono le nostre lotte: le une non
sono pensabili seriamente senza le altre. Sottrarsi alla logica del divide
et impera che il potere ha sempre praticato dacché esiste, è
il primo e necessario passo per costruire un fronte comune in grado di opporsi
alla dittatura neoliberista e di proporre un diverso orizzonte, una diversa
utopia.
Rinaldo
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