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Da "Umanità Nova" n.14 del 16 aprile 2000

Globalizzazione e diritti umani

"La consacrazione del concetto di ingerenza come nuova strategia politica non è che l'espressione ideologica dell'egemonia della società neo-liberale tesa all'eliminazione graduale di ogni ostacolo - e lo stato lo è, e di grosso peso - che impedisca al potere economico la realizzazione del proprio programma di omologazione planetaria delle coscienze e delle istituzioni" (Sabelli, 99).

Il destino della politica nell'era della globalizzazione è lungi dall'essere pronunciato. E non tanto perché il ritorno delle guerre sulla scena primaria delle relazioni internazionali, sia pure sotto effetto del "downsizing politico" (Rosecrance, 51) cui sono succubi gli stati, ne testimonia la pervicace resistenza a trovare un modus vivendi compatibile. La ricerca di dominio globale in un sistema uni-multi-polare come quello attuale non è ostile alle parole d'ordine della globalizzazione, ma anzi trova nella tipicità della politica - porre stato di fatto contro l'autoriforma proceduralmente predeterminata del diritto positivo - una nuova semantica: quella dei diritti umani, che integrata nella grammatica del dominio assume risvolti sinistri di rinforzo delle vecchie politiche di potenza.

L'emergenza di questa nuova sintassi (su uno spartito di sempre) è anche figlia dei processi di radicale deterritorializzazione che le innovazioni trainanti della globalizzazione attivano sino a innalzarsi al rango di preteso paradigma egemone persino nel campo della politica internazionale. "In economie in cui il capitale, il lavoro e l'informazione sono mobili avendo acquisito predominio, non resta alcun feticcio della terra. Lo stato virtuale - uno stato che ha ridotto la propria capacità produttiva basata sul territorio - è la conseguenza logica dell'emancipazione dalla terra... come elemento determinante della produzione e del potere" (Rosecrance, 46, 51). Tuttavia, uno stato virtuale necessita ancora del controllo biopolitico, e la retorica umanitaria è il dispositivo attraverso cui l'effetto della globalizzazione si traduce nella metamorfosi della politica. I nuovi doveri sono dettati dalla retorica umanitaria, a sua volta riflesso delle condizioni di insorgenza delle violazioni dei diritti umani su ogni territorio in cui la dissoluzione di un "vecchio" ordine, sostituito progressivamente con un nuovo ordine in fieri, dalla lunga transizione comunque, scatena gli eventi per i quali la retorica invoca soluzione, ripristinando la circolarità ermeneutica secondo cui miglior antidoto ai guasti della globalizzazione è l'ulteriore spinta verso la... globalizzazione (ora anche nella sfera politica, per saturare una ennesima riterritorializzazione potentemente astratta). "La mondializzazione economica e l'ideologia umanitaria procedono congiuntamente..." (B. Hours, cit. Ryfman, 185).

Che le violazioni dei diritti umani fondamentali siano reali e invochino giustizia, è un fatto innegabile, qualunque siano le loro cause immediate. Che esse siano avvenute anche all'era del bipolarismo dimostra solo quanto il preteso equilibrio del terrore fallisse già allora a prevenire i drammi: quando mai l'ONU è intervenuta per il Guatemala, il Vietnam, la Cecoslovacchia, la Cambogia, l'Afghanistan? Ma nemmeno oggi tale sistema politico pur mutato e sganciato dai limiti dei veti incrociati ha saputo prevenire le spinte genocidiarie della violenza infrastatale in Ruanda, in Somalia, nella ex-Jugoslavia, in Sierra Leone.

La stupidità dell'ingranaggio politico, l'ottusità dell'apparato amministrativo, l'arroganza del trattamento giudiziario, l'indifferenza dei meccanismi sociali, la cecità della macchina bellica, la forza dirompente dell'esclusione economica (povertà, accesso all'acqua, depauperamento culturale, infungibilità dei servizi sociali quali la sanità e l'istruzione), rappresentano i tratti salienti di una epoca presente che mette oscenamente in mostra il nesso tra diritti umani e globalizzazione. Le politiche neoliberiste dei governi e delle istituzioni economico-monetarie internazionali hanno avuto e hanno tuttora un effetto diretto sulla capacità di una società a sostenere i diritti umani, incidendo sulle condizioni vitali, sul carico di saperi e conoscenze opportune, sui costi immediati, sugli investimenti a lungo termine (celebre è la miopia costitutiva della speculazione finanziaria), e ciò attraverso la liberalizzazione dispiegata della circolazione di beni e capitali (non degli individui, però) e la privatizzazione dei profitti che dalle attività economiche pubbliche era in linea di principio possibile ricavare in vista di soddisfare esigenze delle popolazioni, spesso sequestrate dalle proprie élite arrivate al potere mimando metodi e funzioni delle vecchie potenze colonialiste.

McCorquodale e Frairbrother ci espongono i passaggi con cui il legame tra globalizzazione e diritti umani è tracciabile a partire dal nuovo ruolo dei governi rispetto alla gigantesca traslazione di poteri a favore delle economie transnazionalizzate. E tuttavia sono gli stessi autori a sottolineare come i "diritti umani siano parte integrante della globalizzazione nonché distinti da essa" (740), con ciò intendendo dire che la possibilità di dirsi del nuovo lessico emerge proprio all'interno dei processi di mondializzazione. Essa offre una nuova biopolitica tutta da investigare, con tanto di retorica funzionale a definire un nuovo assetto di dominio. Il che nomina, in ultima istanza, e contro la pretesa neo-engelsiana di leggere nei governi il mero comitato d'affari del dominio imprenditoriale - semmai in apparenza sono i manager delle imprese globali a disporre del potere tout court, contro i governi costretti a piegarsi - nomina per l'appunto la politica.

Una delle sfere in cui la globalizzazione ha già fatto intravedere il dispiegamento delle proprie potenzialità ad un alto grado di espressione è la comunicazione di massa. La saturazione atmosferica dei satelliti, la selezione delle tecnologie comunicative e dei relativi standard tecnici, la concentrazione editoriale dei media a livello globale (tanto per dare un esempio, solo tre agenzie stampa globali: AFP, AP, Reuters), ormai congiuntamente sono in grado di narrarci la vita nel mondo sin nei suoi aspetti più reconditi e più discreti, se è vero che la risoluzione del controllo satellitare a distanza di masse umane o in movimento (grazie allo spettro "colorato" del "calore" corporeo) e di quanto comunicato a voce nei vari canali comunicativi riesce a dissolvere ogni eventualità di mantenere oscura e segreta una qualche dimensione del vivere umano, a meno di una qualche scelta deliberata nel sabotare i meccanismi all'opera.

La percezione e l'informazione alimentano non solo i bagagli di conoscenza, ma altresì acuiscono l'eccitazione alla sensibilizzazione verso eventi lontani e anonimi, presentandoceli in maniera da suscitare una vibrazione interna come se vivessimo in presa diretta, noi o i nostri cari, così da provare emozioni di sdegno, dolore, gioia, smarrimento, impotenza, che sono nello stesso tempo quanto di più indotto e quanto di più reale, se esso è ormai dilatato ben oltre il nostro raggio di sensibilità ed è reso planetario grazie alle protesi dei media globali (pur con i noti effetti anestetizzanti di abbondanza seriale).

Grazie a questa dinamica, i diritti umani planetari oggi acquistano valenza massiccia presso le opinioni pubbliche mondiali che sono in grado di procurarsi un accesso al sistema comunicativo, e non tanto, e non solo, perché gli eventi che attirano l'attenzione dei difensori dei diritti umani oggi siano particolarmente e qualitativamente diversi da ieri. Anzi. Genocidi, stupri di massa, deportazioni, pulizie etniche, massacri su scala, conflitti armati sono all'ordine del giorno del secolo, e l'unica novità di rilievo rispetto, per esempio, alla carneficina della lunga guerra 1914-1945 sta nel fatto che ieri le guerre tra eserciti statali avevano per obiettivo l'annientamento del nemico in uniforme (solo il 10% di vittime civili, nei bombardamenti alleati o negli eccidi nazi-fascisti, nella shoah, per dare una indicazione), mentre oggi tale proporzione, legata allo sviluppo delle tecnologie di armi, è ribaltata a danno delle popolazioni civili (sembrerebbe che, nei conflitti atipici odierni, l'unico posto ove trovare scampo dagli eccidi siano le file di una formazione paramilitare, che contano caduti intorno a un 10% del totale). La popolazione civile non è più vittima di "spiacevoli effetti collaterali", bensì è direttamente ed immediatamente ostaggio e target della strategia militare e, soprattutto, paramilitare.

La conoscenza, sia pure per mera visione scarsamente rielaborata al di là del dato emotivo, è tuttavia sufficiente, qualora alimentata dai media globali, ad attivare una sorta di mobilitazione dell'opinione pubblica verso l'intolleranza ad ogni eccidio che violi la base delle cognizioni morali universali che sottendono ogni piattaforma di tutela dei diritti umani, anche quando alcuni suoi elementi sono specifici a date civiltà, con ciò producendo qualche attrito interculturale. La consapevolezza di un torto radicale avverso alla condizione umana dovrebbe spingerci ad invocare rispetto per l'umanità di ciascun abitante della terra, al di là e contro l'appartenenza di cittadinanza certificata dagli organi competenti di stato. Ad ogni modo, il moto spontaneo di sdegno e commiserazione (la pietas delle nostre radici) si diffonde come risorsa mobilitabile selettivamente per accendere i riflettori mondiali sulle violazioni dei diritti umani, ovunque esse siano compiute, ma solo se ne veniamo informati una volta superata la soglia sempre più alta di eccitazione dei sensi resi apatici dalla spoliticizzazione di massa indotta dai sistemi di potere moderni. I diritti umani costituiscono oggi la chiave che aprirà le porte del prossimo secolo. Gli scenari non saranno neutrali in ragione dei modi in cui esse verranno aperte.

La risorsa di attivazione e mobilitazione dei sentimenti morali dell'opinione pubblica diventa capitale per la politica dei diritti umani su scala globale, operando un passaggio dal piano della sfera morale a quello dell'intervento attivo nei confronti del nostro simile-altro-da-noi la cui differenza ci sta a cuore proprio perché riconosciamo in essa quella singolarità che è pure la nostra: quel ciascuno impalpabile e inappropriabile che si radica in noi, pur senza farsi corpo plurale, ma superando le distinzioni di nazionalità, etnia, cittadinanza, lingua, religione, ideologia professata, status sociale, posizione economica. La sofferenza è il collante morale della difesa dei diritti umani dappertutto e sempre.

Salvo Vaccaro



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