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Da "Umanità Nova" n.15 del 23 aprile 2000
I bombardamenti un anno dopo
Chi ha parlato di fallimento?
Il buon Von Clausewitz - oggigiorno citato in continuazione da marketingologi e
teorici della famigerata new economy - diceva che una guerra si combatte solo
per raggiungere finalità politiche. Se oggi si guarda, ad un anno di
distanza, alle finalità dichiarate che l'Alleanza Atlantica si proponeva
di raggiungere con la guerra scatenata contro la Serbia - proteggere i
kosovari da quello che veniva definito tout-court genocidio etnico, abbattere
il macellaio Milosevic e il suo entourage nazionalista, creare i presupposti
per una stabilizzazione della regione balcanica su basi interetniche e di
progressiva democratizzazione dell'area - si deve concludere che nessuno di
quegli obiettivi è stato raggiunto. Anche il ritorno dell'etnia
albanese, infatti, è stata solo la premessa ad un ribaltamento dei
ruoli, dove le vittime di ieri si sono trasformate nei carnefici di oggi,
cambiando magari il ruolo degli attori in scena, ma non scalfendo minimamente
il principio perverso operante da anni sul territorio dell'ex Jugoslavia. Se si
guarda all'attuale situazione con un minimo di obiettività non si
può non concludere che la situazione, lungi dall'essere migliorata, sia
invece addirittura peggiorata, sia in termini di stabilizzazione dell'area che
di convivenza tra le diverse etnie. Con una dose di ipocrisia raccapricciante,
a questa conclusione paiono arrivare - ora che l'anniversario con la sua
valenza simbolica costringe a tirare qualche somma - quasi tutti i
commentatori, anche quelli che un anno fa sostenevano a spada tratta le ragioni
dell'intervento armato. Tutto questo se si prendono - e si prendevano - per
buone le finalità dichiarate, appunto. Ma se si guarda alle vere
finalità della guerra scatenata un anno fa, allora il discorso cambia.
Giacché è sempre pericoloso sottovalutare gli avversari e
tacciarli di aver semplicemente fallito nei loro intenti - trasformandoli
addirittura in vittime un po' ingenue degli eventi - è forse più
proficuo partire dall'assunto che la guerra di un anno fa avesse effettivamente
delle finalità politiche, ma che queste erano ben diverse da quelle date
in pasto all'opinione pubblica. E, di seguito, che tali finalità non
dichiarate - e nei giorni della guerra denunciate solo da una minoranza
dissenziente - siano in realtà state in buona parte raggiunte.
L'influenza della Nato nei paesi ad est dell'Unione Europea è
sicuramente aumentata, ad esempio, ed anzi la Nato può arrogarsi il
diritto di conservare una funzione pur senza lo spauracchio dell'Unione
Sovietica e della guerra fredda anche grazie alla guerra dell'anno scorso. In
effetti gli interventi di questi anni della Nato nell'ex Jugoslavia -
considerati come un continuum logico e non come una serie disordinata e caotica
di aggiustamenti successivi come vorrebbe la vulgata dominante - paiono
rispondere ad un bisogno di autolegittimazione che si basa sul principio della
riproducibilità dell'intervento armato come regolatore di conflitti una
volta innescato un processo di reazione iniziale. Le indiscrezioni che man mano
stanno venendo alla luce sul ruolo di agenti della C.I.A. infiltrati nei mesi
che precedono i negoziati di Rambouillet, sembrano confermare che gli Stati
Uniti e la Nato al seguito non solo non siano in grado di porsi come mediatori
credibili -cosa che ormai nemmeno le anime belle possono credere - ma che
addirittura fungano da vero e proprio detonatore di conflitti. Quando Foucault
parlava delle istituzioni totali insinuava che spesso la relazione
causa-effetto andava ribaltata per comprendere la vera natura di istituzioni
storicamente date come il carcere. Nella sua analisi non era il carcere ad
esistere in quanto esistevano i criminali, quanto piuttosto il contrario: i
criminali erano l'alimento di cui si nutriva il carcere per mantenersi in vita
come istituzione di controllo della norma. Salto logico successivo, e
necessario per comprendere il pensiero foucaultiano: il carcere tende non alla
riduzione della criminalità, quanto piuttosto a una sua
riproducibilità - al limite controllata - in maniera da potersi
presentare come necessario per la società. Un discorso analogo si
potrebbe fare per la Nato: che senso avrebbe la sua sopravvivenza se non ci
fossero guerre? Tutto l'apparato militare dei paesi occidentali - in via di
ridefinizione in questi anni nel senso di una sua professionalizzazione e di
una maggior pervasività nella società, anche in vista di funzioni
eminentemente poliziesche di controllo - si è nutrito e si nutre dei
conflitti nell'area balcanica, oltre che di altri sparsi per il globo.
Più che analizzare il conflitto di un anno fa - cosa pur importante, ma
che in fondo a grandi linee si era già fatta nella primavera scorsa -
sarebbe allora forse il caso di rendere esplicito questo meccanismo: altrimenti
ci si potrebbe trovare tra un anno o due a parlare della prossima guerra
guerreggiata a due passi da casa (Macedonia? Montenegro? boh...).
Comunque, per tornare al discorso delle finalità effettivamente
raggiunte, al di là della retorica e delle dichiarazioni del momento,
non si può tacere degli indiscutibili vantaggi che la guerra dell'anno
passato ha apportato agli Stati Uniti in termini di una leadership mondiale che
per certi versi appariva un tantino appannata - soprattutto dall'ascesa
dell'Unione Europea come entità politica autonoma - negli anni
immediatamente seguenti al crollo del muro di Berlino. Il trend positivo del
dollaro nei confronti dell'euro, accentuatosi a partire dai giorni della
guerra, sta lì a dimostrare che le azioni della macchina da guerra
americana sono fin troppo ben quotate alla borsa della realpolitik mondiale.
Per quanto riguarda i governi di pseudosinistra attualmente al potere in
parecchi dei paesi del vecchio continente, si può dire che la guerra
è stato il banco di prova della loro affidabilità e della loro
attitudine a governare, se per governare si intende una propensione
decisionista assolutamente slegata da qualsiasi delega popolare. Ripensando
all'anno scorso fa un certo effetto vedere i cartelloni pre-elettorali diessini
di questi giorni che recitano "Quattro anni di governo e l'Italia è
più forte"...
A proposito del discorso relativo alla delega, e lungi qui ovviamente dal voler
fare un elogio del sistema parlamentare, bisogna comunque notare che le
modalità di entrata in guerra dell'Italia - come del resto degli altri
stati coinvolti - hanno rappresentato un salto di paradigma notevole,
rappresentativo di una condizione diffusa in questi anni per quanto riguarda le
reali possibilità di controllo dal basso delle decisioni dei governanti.
Se è vero che in un sistema come la democrazia rappresentativa il reale
potere decisionale del cittadino è comunque molto ridotto, è
anche vero che le attuali élite non si pongono più nemmeno il
problema formale di una seppur minima consultazione: segno questo di
un'arrogante sicurezza sicuramente motivata dall'inerzia di un'opinione
pubblica debitamente ammaestrata da mass-media e opinionisti, ma che
paradossalmente potrebbe condurre a un salutare discredito della classe
politica considerata nel suo insieme. L'inerzia spesso nasconde una rabbia
profonda: il problema di chi in forme svariate dissente è quello di
rendere esplicita questa rabbia sotterranea, di darle una forma credibile e
contundente nei confronti dello status quo: si potrebbe allora scoprire che
davvero il re è nudo (Seattle docet) e che forse la sua violenza
crescente è segno di debolezza e impotenza intrinseche.
Tornando ai salti di paradigma prodotti dalla guerra dell'anno scorso si deve
invece segnalare il tramonto definitivo di quella sensazione di orrore legato
alla guerra che tanto aveva segnato la generazione uscita da due conflitti
mondiali ravvicinati e di cui la Costituzione italiana - con tutta la sua
enfasi antiguerrafondaia e l'ammissione dei conflitti armati solo come extrema
ratio e comunque a scopo difensivo - era uno dei prodotti più tipici.
Con l'invenzione della guerra umanitaria si torna invece a un'idea ritenuta a
torto superata di guerra giusta o addirittura di guerra santa, guerra di buoni
contro cattivi. Non è un salto da poco, e non si può fare a meno
di sottolineare quanto giochi a favore di questo passaggio l'enorme sviluppo
delle tecniche e dei saperi prodottasi in campo militare. L'apparato di potere
dominante nei paesi occidentali - Stati Uniti in testa - ha ben compreso, dal
Vietnam in poi, quanto possa essere impopolare e pericoloso veder ritornare i
cari figli della patria avvolti in sacchi di plastica, e quanto l'utilizzo
delle nuove tecnologie possa essere funzionale a far dimenticare che una guerra
è pur sempre una questione di morti ammazzati. Come non pensare che la
grave inerzia nei confronti della guerra dell'opinione pubblica nostrana non
sia il risultato del fatto che a lasciarci le penne, nella stragrande
maggioranza dei casi, non sono più i nostri ma i loro?
Le finalità politiche, dunque, ovviamente c'erano, e altrettanto
ovviamente non erano quelle ufficialmente sbandierate ai quattro venti. Ma
pensiamo ai salti di paradigma sopra accennati, pensiamo alla rilegittimazione
degli Stati Uniti e della Nato ottenuta con la forza delle armi, pensiamo
all'involuzione preoccupante delle forze politiche nostrane attualmente al
governo e al loro evidente e progressivo spostamento a destra, pensiamo al
fatto che Milosevic e l'apparato di potere serbo - come predicevamo un anno fa
in periodo non sospetto - è ancora saldamente al suo posto (con una
parabola simile a quella di Saddam Hussein prima di lui), pensiamo al fatto che
qualsiasi opposizione interna serba è se possibile ancora più
impotente e frammentata oggi che alla vigilia della guerra, pensiamo al ruolo
ambiguo di una forza come l'U.C.K. che via via si sta rendendo più
evidente, pensiamo alla costruzione del Kosovo su un modello di vero e proprio
stato-mafia, pensiamo agli unici progetti seri a livello interetnico sulle
macerie della ex Jugoslavia (quelli criminal-mafiosi appunto), pensiamo allo
sfacelo dalla missione Arcobaleno (un esempio di intervento umanitario nato
male e proseguito peggio) pensiamo al disastro ambientale prodotto
deliberatamente dai bombardamenti (un Vietnam nostrano, con l'uranio impoverito
a fare la parte del napalm di buona memoria), pensiamo alle conseguenze
criminali di un embargo che ancora si protrae e che colpisce tutti meno chi
dichiara di voler colpire, pensiamo alle celebrazioni di questi giorni in
Serbia che rischiano di trasformare i bombardamenti dell'anno scorso in una
nuova Battaglia dei Merli nell'elaborazione nazional-vittimistica che ne fanno
le élite nazionalistiche locali, pensiamo all'oggettiva
difficoltà a contrastare il macello ceceno dopo aver usato gli stessi
metodi pochi mesi prima... pensiamo a tutto questo e vedremo che non uno degli
elementi sopra citati va nel senso di una liberazione intesa nel senso ampio
della parola. Al contrario, tutto pare inserirsi in un disegno globalmente
repressivo che ha il pregio di una rara coerenza interna e che ha visto nella
guerra combattuta un anno fa una sintesi e un modello. Dal punto di vista di
chi detiene il potere - negli stati occidentali come in Serbia come in Kosovo -
l'intervento dell'anno scorso è stato dunque tutto fuorché un
fallimento. Rendere evidente questo è forse l'unica via perché
gli sfigati di qua e di là dell'Adriatico - al di là delle
minchiate di etnia, razza, nazione, lingua e religione - si riconoscano di
nuovo come classe sulla cui pelle si sta costruendo il nuovo ordine mondiale.
Rinaldo
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