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Da "Umanità Nova" n.15 del 23 aprile 2000
La frammentazione come paradigma
Le forme della precarietà
Di frammentazione di classe si parla ormai ad ogni pié sospinto.
Viene da chiedersi se possa essere considerato un paradigma accettabile per
indagare sull'attuale stato di debolezza della working class e dell'assenza di
lotte significative e generalizzate. A mio avviso lo si può solo se lo
allarghiamo a ricomprendere tutte le sue valenze, cause e implicazioni a
livello economico (in senso "stretto": rapporti di produzione e organizzazione
del lavoro), sociale (indebolimento e trasformazione strutturale della
comunità proletaria) e politico (concepibilità e pratica
dell'organizzazione di classe).
Se così non fosse ci troveremmo a parlare di una generica scomposizione
della working class, a prendere atto di divisioni e di contrapposizioni al suo
interno senza coglierne le dinamiche e dunque la natura di processo. Quello che
ci serve non è un dagherrotipo (per quanto definito e ricco di
particolari) quanto l'intero film; solo così potremo considerare linee
di potenziale sviluppo dell'antagonismo di classe senza ricadere nella sterile
contrapposizione tra il "nuovismo" e la riproposizione di schemi immutabili.
Solo due esempi, attinenti peraltro ad ambiti diversi: alcune forme di lavoro
atipico (come i lavori socialmente utili) appartengono alla contingenza del
momento, a peculiari debolezze di alcuni settori produttivi e/o dei servizi, al
contesto di questo o quel paese.
Un altro esempio sono i processi di dequalificazione professionale mascherati
da professionalità flessibile. Nuove figure, nuovi profili che
veleggiano nell'organizzazione del lavoro "flessibile", esperti e qualificati
in tutto e in niente che operano nella spettacolarizzazione più che
nella sostanza della ristrutturazione dei processi produttivi reali e nella
loro ridislocazione su base nazionale e internazionale. Fase transitoria di un
processo di crisi d'accumulazione capitalistica, con tutti i suoi annessi e
connessi. Storicizzare questi fenomeni e ricondurli, anche se microscopici
tasselli, nell'alveo di un processo di trasformazione complesso dell'Umwelt,
che accelera ogni volta che sembrano avvicinarsi barriere naturali
insormontabili.
Dinamiche generali della ristrutturazione
Ma torniamo alla frammentazione nel suo duplice ruolo di causa ed
effetto e nella sua triplice accezione economica, sociale e politica.
Frammentazione della working class è indubbiamente risultato della
crisi, ormai più che ventennale, del capitalismo e degli sforzi da parte
dello stesso per uscirne. I cosiddetti processi di globalizzazione - intesi
come internazionalizzazione del capitale, stretta interdipendenza a livello
finanziario e produttivo tra aree lontanissime del pianeta e velocizzazione dei
movimenti del capitale - hanno agito come potente leva sulla scomposizione
della working class dei paesi capitalistici avanzati e sulla composizione della
stessa a livello mondiale.
Globalizzazione dunque nel senso di internazionalizzazione del mercato del
lavoro che presuppone la capacità di una diversa dislocazione produttiva
(deindustrializzazione di talune aree e paesi, industrializzazione accelerata
di altri) e una flessibilità crescente della divisione e
dell'organizzazione del lavoro a livello nazionale ed internazionale.
Segmenti importanti della working class sono stati espulsi dai processi
produttivi, marginalizzati dal mondo del lavoro e precarizzati. Altri,
specialmente nei servizi, proletarizzati ovvero privati di talune forme di
autonomia nell'ottica di una sorta di taylorizzazione. Altri ancora hanno visto
pesantemente attaccato il livello salariale, le condizioni normative, le
condizioni di lavoro (ritmi, sicurezza, ecc.). Altri ancora hanno avuto negato
l'accesso al tradizionale mondo del lavoro, con le sue regole e i suoi rapporti
di forza codificati, ma su questo bisognerà tornare.
Tutti hanno subito pesantemente i tagli al salario differito (servizi,
assistenza, previdenza) con lo smantellamento delle forme ormai statuite di
Welfare. Evidentemente questi processi di disgregazione e di indebolimento
complessivo non potevano che dare un feed-back elevato, aprendo brecce e varchi
ad ulteriori forme di precarizzazione del lavoro, di intensificazione dello
sfruttamento e di ulteriore riduzione delle garanzie sociali.
Non è affatto da sottovalutare l'aspetto ideologico di giustificazione
di questi fenomeni, in molti settori della working class è ormai sentire
comune che flessibilità e precariato sono caratteristiche organiche
dell'attività lavorativa. Tra i vecchi per la disillusione delle mille
sconfitte, tra i nuovi per l'inconcepibilità di un diverso modo di
essere dei rapporti di forza all'interno dell'organizzazione capitalistica
della produzione.
Disgregazione, decomposizione
La frammentazione della working class va poi considerata nella sua
duplice accezione di disgregazione del corpo composito, ma cementato dagli
interessi immediati, della classe in quanto produttrice e in quanto
forza-lavoro; di decomposizione del tessuto sociale che faceva riferimento alla
grande fabbrica, della comunità proletaria insediata nei quartieri
operai, delle forme tradizionali di aggregazione sociale e parentale, ma di
questo accenneremo solamente.
Per quanto riguarda il primo aspetto non possiamo che fare riferimento alla
disarticolazione delle forme tradizionali del rapporto di lavoro.
Dall'eccezionalità di forme di lavoro a tempo determinato previste dalla
vecchia normativa contrattuale di molti settori produttivi e dei servizi siamo,
nel giro di una decina di anni, passati all'attuale variopinta e multiforme
galassia contrattualistica e no.
Il lavoro nero, una volta circoscritto a sacche limitate (essenzialmente
lavoratori dei servizi o dell'industria con turnazioni lavorative che
permettevano una seconda attività) si è dilatato a inglobare
masse di giovani disoccupati in cerca di una problematica prima occupazione, di
studenti, di licenziati o cassa-integrati, di pensionati in cerca di
un'integrazione allo scarso reddito.
Alla vecchia bipartizione lavoro nero - lavoro regolare si è poi
aggiunta la categoria dei lavoratori LSU (Lavoratori Socialmente Utili,
NdR), a diritti ridotti e senza che la loro attività si configuri,
giuridicamente, come rapporto di lavoro. Su questa categoria si è
scritto molto negli ultimi tempi anche perché le lotte dei lavoratori
LSU sono, in questa fase, quasi le uniche (ovviamente con le debite eccezioni)
che esprimano un certo livello di coordinazione. I LSU come è noto
rappresentano un escamotage, un espediente ausiliario con cui all'inizio degli
anni '90 si è tentato di accompagnare lavoratori di aziende in crisi
fuori dal mondo della produzione, integrando l'indennità di Cassa
Integrazione o di mobilità con un sussidio a carico del Fondo per
l'occupazione a fronte di una sorta di precettazione in attività
cosiddette sociali (tutela dell'ambiente, essenzialmente). Un espediente
temporaneo che tuttavia negli ultimi hanno ha assunto dimensioni considerevoli
(almeno 150.000 lavoratori impiegati, ormai in grande maggioranza disoccupati
di lunga durata) perché pubbliche amministrazioni ed enti ad esse
collegate hanno - in qualche modo, tramite l'utilizzo di questi lavoratori -
sopperito alle carenze delle piante organico e al blocco delle assunzioni
determinato dalle esigenze di risanamento dei bilanci.
Il discorso delle pubbliche amministrazioni ci riporta, peraltro, ad un'altra
categoria di lavoratori precari - quelli con contratto a tempo determinato, 3,
4 o 6 mesi, o in certi casi di più - di cui si sono avvalsi copiosamente
gli enti pubblici, per i motivi sopra esposti. I contratti vengono spesso
rinnovati, con una certa continuità, proprio perché si tratta di
lavoratori addetti alla "produzione" (usiamo questo termine in senso generale,
intendendo le attività ordinarie nei servizi pubblici). Questa
continuità nell'impiego ha in qualche modo radicato questi lavoratori
nelle aziende ed ha permesso, in certi casi, lotte vittoriose per il
consolidamento del rapporto di lavoro. Questa tipologia di rapporto di lavoro
ha fatto breccia anche nel settore privato e nell'industria, dove però
si è sviluppata in condizioni diverse, come ad esempio con
l'intermediazione delle nuove strutture di collocamento privato (tipo agenzie
interinali).
Per quanto riguarda il settore industriale le forme della precarizzazione si
innestano spesso su tipologie di rapporto di lavoro preesistenti e/o la loro
dilatazione. Basterebbe citare come esempi i contratti di formazione-lavoro e
l'apprendistato che ormai costituiscono l'unica via d'ingresso ad un possibile
rapporto di lavoro a tempo indeterminato. I primi hanno, ad esempio, un
precedente nelle borse di studio-lavoro introdotte già all'inizio degli
anni '80; il secondo è stato esteso a categorie impiegatizie con limiti
di durata e di età innalzati. Esistono poi forme spurie di rapporto di
lavoro come gli stage aziendali che spesso mascherano una reale
produttività sotto le spoglie di una formazione professionale in loco.
Un'altra categoria di lavoratori precari di cui viene fatto largo uso - sia nel
pubblico che nel privato, sia nell'industria che nei servizi - è quella
dei lavoratori para-subordinati con contratti di collaborazione o di consulenza
che, spesso, sotto l'apparenza mistificante del rapporto di
professionalità libere che si offrono in autonomia, nasconde una
subordinazione ed una flessibilità pressoché totale dal punto di
vista retributivo (salario mascherato, non superiore, detratti i costi, allo
stipendio di un dipendente fisso) sia da quello dell'organizzazione del lavoro.
È evidente che si tratta di una categorizzazione molto generale che
finisce per comprendere casi estremi, in un senso come nell'altro, ma pur
tuttavia di una tipologia di lavoro abbastanza coerente si tratta.
Un ultimo tipo di precarizzazione del rapporto di lavoro, che qui per motivi di
spazio prendiamo in esame, è quello che si manifesta in forma collettiva
nelle cooperative (siano esse di produzione, di servizi o di assistenza), nelle
società miste (finanziamenti pubblici + investimento dei lavoratori
stessi) e nelle forme più svariate di auto o piccola
imprenditorialità connessi ad appalti pubblici. La coercizione implicita
nella scelta di queste attività, scarsamente garantita e per periodi non
più lunghi di tre-quattro anni da commesse e appalti, appare evidente
nel caso dei lavoratori socialmente utili a cui viene proposta come sbocco
naturale, in alternativa all'obsoleto rapporto di lavoro fisso, ricco di
opportunità e di autoaffermazione.
Concludiamo questa rapida carrellata sulle forme più praticate di
precarizzazione del rapporto di lavoro (ne abbiamo trascurate moltissime che,
comunque, possono ricondursi a qualcuna di queste tipologie) con la
considerazione che la segmentazione così definita - a cui dobbiamo
aggiungere lo spezzone di gran lunga ancora più consistente dei
lavoratori "garantiti" - definisce la qualità dello spezzettamento della
working class in settori che, concorrenzialmente, si rapportano alla
centralità del posto di lavoro fisso e del reddito assicurato che ne
consegue. Esempi di latente conflittualità (ma anche a volte esplicita)
tra i vari settori è, ovviamente, quella che contrappone i lavoratori a
posto fisso a tutte le altre tipologie ma, non da ultimo, anche quella che
contrappone precari a precari, individuo a individuo nello stesso segmento di
lavoro precarizzato.
Sull'impatto sociale della frammentazione di classe si possono, a grandi linee,
rilevare due fenomeni di scala diversa. Il primo - che per la verità si
accompagna, più che esserne in qualche modo effetto - è la
disintegrazione dei vincoli solidaristici della comunità proletaria che
viveva, anche materialmente, in simbiosi con la fabbrica, con le condizioni di
lavoro e di sfruttamento omogenee dei suoi membri. Il secondo è la
ricomposizione di microcomunità, essenzialmente su base familiare, come
difesa (economica) alle difficoltà materiali senza che ciò
comporti un riconoscimento di interessi comuni. Si tratta, a mio avviso, di
linee d'analisi che varrebbe la pena di sviluppare.
Guido Barroero
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