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Da "Umanità Nova" n.16 del 7 maggio 2000

I 500 anni della "scoperta" del Brasile
Una festa per chi?

Decimati da fame e malattie, espropriati delle loro terre, privati di una cultura millenaria mirabilmente integrata con l'ambiente circostante, sempre minacciati di morte quando reclamano i loro diritti, gli indios brasiliani, e più in generale i nativi delle Americhe, sono stati recentemente chiamati dal governo brasiliano a "festeggiare" il cinquecentenario dello sbarco dei portoghesi sulle loro terre. Organizzatori della "festa" gli eredi diretti di quella turba di aggressori in tonaca e corazza che da allora fino ai giorni nostri hanno avuto con gli indios solo un rapporto di rapina e di forzata evangelizzazione.

Non così stolta da cadere in questo tranello festaiolo che avrebbe dovuto far dimenticare le colpe e far valere i meriti di una civiltà "superiore" che ha portato al continente progresso e benessere, una parte consistente degli indios ha inteso controfesteggiare la data funesta del 26 aprile 1500, mettendo il mondo occidentale di fronte alle proprie responsabilità. Con la lucidità che contraddistingue chi ha dovuto subire le più feroci ingiustizie, molti capi tribù hanno così voluto denunciare come in questi cinque secoli l'unico rapporto che il conquistatore bianco ha avuto con la loro razza è stato un rapporto di comando, di potere, di spoliazione e di rapina. Tutto, quindi, tranne che scambio e collaborazione fra culture diverse nel reciproco rispetto delle diversità oggettive, bensì una volontà egemonica finalizzata ad emarginare e sopprimere quanto si opponeva alla colonizzazione dei nativi: da una parte il ferro del conquistatore e al suo fianco, come sempre, il crocefisso dell'evangelizzatore.

E, come volevasi dimostrare, il pesante e indecente intervento dell'esercito che ha impedito agli indios dissidenti dal copione ministeriale di manifestare pacificamente la propria irrinunciabile ostilità ad ogni forma di normalizzazione, è stato coperto e approvato dal braccio secolare della chiesa, con il diretto avvallo del messo papale. E questo nonostante che alcune associazioni religiose brasiliane, fedeli a quella teologia della liberazione avversata dalle gerarchie ecclesiastiche e duramente condannata dal papa, si siano poste dalla parte giusta, appoggiando le rivendicazioni e le denunce degli indios.

"Ma non avete vergogna?"

"Voi non siete mai stati capaci di rispettare gli indios. Ma non avete vergogna?". Queste le drammatiche parole con cui un combattivo capo tribù, eludendo il servizio d'ordine, si è rivolto al cardinale Sodano, rappresentante del Papa, mentre stava celebrando la messa commemorativa dello sbarco di Pedro Alvares Cabral. Severamente richiamata da più parti a rispondere delle proprie innegabili responsabilità, così determinanti nel processo di snaturazione ed eliminazione della cultura nativa, la chiesa cattolica, nella sua parte più istituzionale ed autorevole, non ha saputo far altro che mendicare comprensione "per le proprie manchevolezze, se mai ce ne sono state", pronta comunque a rivendicare il proprio ruolo e la propria storia, qualora le critiche dovessero arrivare al cuore della questione.

E infatti, se ci fosse ancora bisogno di dimostrare che la Chiesa è pronta al mea culpa quando ciò sia funzionale al recupero di credibilità ma non allorché a pretenderlo siano le sue vittime, lo stesso cardinale Sodano, con bella improntitudine, ha voluto fugare ogni dubbio su come la pensi ufficialmente il Vaticano, rilasciando un'intervista che se non apparisse sull'autorevole "Corriere della Sera" potrebbe sembrare un ben congegnato falso anticlericale. Con la protervia che contraddistingue il potente, con la falsità che contraddistingue il gerarca vaticano, mons. Sodano ha orgogliosamente rivendicato la parte giocata dalla chiesa, con le sue missioni e nunziature, nell'inesorabile processo di distruzione dell'identità pagana ed "altra" delle popolazioni amerinde.

"Da quanto mi risulta i popoli indigeni sono profondamente grati alla Chiesa"

Di fronte alle domande del cronista, abbastanza puntuali nella loro immediatezza, il cardinale ha voluto eliminare qualsiasi dubbio sulla ferma volontà della chiesa cattolica di riconoscere, sempre e comunque, il potere costituito, quando questo sia disposto a riconoscerle l'egemonia spirituale all'interno della società. Che poi questo potere si eserciti nella repressione e nel mancato riconoscimento dei diritti delle minoranze e dei "dannati della terra" ha ben poca importanza di fronte alla edificazione della grandezza della chiesa.

Parlando, ad esempio, dell'impressionante declino demografico dei nativi brasiliani, passati da cinque milioni a trecentomila, l'ineffabile prete non trova di meglio che (s)ragionare sulle cifre, discettando di milioni di morti come fossero semi di zucca: "Si esagera quando si parla di milioni e milioni a proposito della popolazione indigena del 1500. La stima degli studiosi si aggira fra un milione, un milione e mezzo o due milioni. Certo il Brasile moderno è cresciuto molto [...]. Gli indigeni invece di crescere sono diminuiti". Che oggi non siano più di trecentomila, evidentemente non rientra nelle preoccupazioni dell'alto prelato.

Del resto anche il loro tentativo di sottrarsi e contestare l'ipocrita celebrazione di quello che considerano come l'inizio della loro iattura, viene liquidato come la strumentalizzazione di "un gruppo ideologizzato che non rappresenta la maggioranza dei popoli indigeni". Quindi, avanti tutta!, perché "è logico che prevalga l'aspetto gioioso nelle celebrazioni della storia dell'America Latina". Privilegiando pertanto questo aspetto, che forse sarà gioioso, ma non certo per i poveri indios, Sodano glissa sulla domanda su un eventuale mea culpa della chiesa rispetto alle proprie responsabilità in cinquecento anni di genocidio culturale (e non solo culturale) in America. Rimarcando presunte differenze fra la storia della chiesa in America ed in Europa, afferma che il perdono chiesto recentemente dal Papa per gli errori secolari della chiesa non riguarda il nuovo continente perché "in Brasile non vi fu ciò che talora è avvenuto in alcune nazioni europee, e cioè non vi fu l'alleanza "Trono e altare", ma vi fu piuttosto l'alleanza "Chiesa e Popolo". Certo che queste parole, pronunciate da colui che per dieci anni fu il nunzio apostolico nel Cile di Pinochet, e proprio negli anni più bui della repressione e del terrore di stato, gettano una luce sinistra sull'affermazione con cui chiude la sua intervista: "da quanto mi risulta, i popoli indigeni sono profondamente grati alla chiesa". E se mai non dovessero esserlo, se oggi sono trecentomila, domani, chissà....

Massimo Ortalli



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