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Da "Umanità Nova" n.17 del 14 maggio 2000

Carcere: la naturale brutalità del dominio

Il fatto è noto, 82 guardie carcerarie sono state incriminate e arrestate per i maltrattamenti (pestaggi ed altro) inflitti ai detenuti del carcere di San Sebastiano a Sassari, tra il 28 marzo e il 3 aprile.

Sorpresa, come se questi episodi non fossero la pratica più o meno quotidiana dell'universo concentrazionario simboleggiato dagli istituti di pena; tutta la gamma dell'indignazione, da quella più blanda allo sdegno, come se eliminando gli eccessi di questo tipo, il carcere potesse diventare un asettico luogo di purificazione e di ammenda dalle colpe commesse.

Insomma, tutta la Mischung, tutto il mélange dei buoni sentimenti democratico-borghesi espressi nei mass-media, nelle opinioni di politici, uomini di legge, esperti del settore, democratici di mestiere, massaie di Voghera. Per la verità qualcun altro ha anche detto che così - con l'incriminazione delle guardie - si lede l'autorità e il prestigio delle istituzioni; altri ancora che, tutto sommato, magari a mezza voce, i delinquenti un po' di botte se le meritano. Il solito repertorio insomma, troppo facile da commentare.

D'altra parte anche fare i radical e dire che il carcere, la pena e il delitto che li provoca sono frutto della società borghese sembra un po' troppo facile. Non è che non sia vero, anzi. Il crimine esiste in quanto comportamento deviante rispetto alle norme e alla morale vigente. Siccome queste sono contestuali e funzionali ai rapporti sociali di dominio, è del tutto evidente che l'attacco, ad esempio, alla proprietà è delitto gravissimo in una società fondata su questa. È vero, ci sono altri crimini particolarmente infamanti, specialmente quelli rivolti alle persone e alle persone più deboli, che non hanno nessuna giustificazione "ideologica" se non che, comunque e in ultima analisi, sono i rapporti sociali "malati" della società capitalistica che consentono il proliferare di questi comportamenti. Dunque solo un'idea molto generale e semplificata che non offre elementi forti di giudizio né nei confronti del crimine, né della sua punizione, né delle aberrazioni di quest'ultima.

Il carcere è, dal punto di vista concettuale, l'annichilimento della persona in quanto essere sociale, la sua esclusione dalla vita della società e dei suoi rapporti. Un luogo altro rispetto a quelli che frequentiamo usualmente, con regole diverse, con tempi diversi, dove l'atto violento della privazione della libertà personale (per quanto questa possa essere limitata nella società d'oggi) viene ripetuto all'infinito nella coercizione, nella sottomissione e nella violenza di Lebensformen, forme di vita, che popolano una collettività anomala e coartata.

Il carcere però è anche stilizzazione della società totalitaria (meglio sarebbe dire totalizzante per ricomprendervi anche le forme della democrazia), una sua metafora, la semplificazione dei rapporti di dominio, che ne esemplifica la naturale brutalità. Al reticolo ottuso delle sue norme, alla meticolosità esasperante delle sue procedure, che rimandano ad una grottesca caricatura del più rigido apparato burocratico, si sovrappone però una forma para-comunitaria, sia pure derivata dall'artificiosità e dalla coercizione, che ha norme sue, leggi non scritte, che ne disciplinano le dinamiche. In questo piccolo corpo sociale, segmentato e stratificato - anche secondo coordinate di classe - al suo interno, le sequenze rispetto-insubordinazione-punizione (individuale) e oppressione-rivolta-repressione (collettiva) sono naturali e congruenti all'istituzione. In questo il carcere è anche scuola, ma scuola per tutti, per chi vi sta dentro, come per chi sta fuori. Scuola dunque non solamente di "malvivere" per i giovani carcerati o di maturazione politica come fu, in altre epoche, per altrettanti giovani imprigionati, ma scuola in quanto microcosmo sociale, scarnificato paradigma del vivere coartato che nella società del capitale appare come Natürlichkeit.

Doctor Invincibilis



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