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Da "Umanità Nova" n.17 del 14 maggio 2000

I referendum e l'implosione del sistema dei partiti

Le recenti elezioni regionali hanno costituito, come abbiamo già rilevato, una riprova del ridimensionarsi del ruolo del sistema dei partiti come strumento di canalizzazione della pressione sociale.

Nonostante gli sforzi della destra per presentare i risultati delle elezioni come una prova del consenso popolare all'asse polo - lega i dati sono sin troppo chiari: il centro destra perde voti ed il centro sinistra va a fondo.

È ragionevole pensare che l'astensione sia più collocata sulla sinistra che sulla destra dello schieramento politico ma questa valutazione vale solo nel senso che la sinistra ha perso consensi nei settori sociali che rappresentava tradizionalmente in misura notevolissima e non in quello che vi è una domanda di "rappresentanza" a sinistra. I mediocri risultati del PRC e di altre forze minori della sinistra ( che avrebbero potuto raccogliere il dissenso di sinistra) dimostrano che non c'è alcuna crisi di astinenza da voto e che, senza pretendere di prevedere quello che avverrà nei prossimi anni, il disincanto nei confronti del parlamentarismo è forte.

In questo contesto i referendum radicali appaiono come una riprova della putrefazione della politica parlamentare.

Al fine di comprendere quanto sta avvenendo lasciamo stare, per il momento, il referendum sui diritti dei lavoratori e poniamo l'attenzione su quello volto ad abolire la quota di eletti su base proporzionale non perché sia di grande interesse in sé ma per quello che permettere di comprendere del quadro politico.

L'oggetto del contendere è noto, i referendari, con in prima fila l'algido e supponente Mario Segni, affermano che si tratta di spazzare via la "partitinocrazia" e, cioè, il potere di ricatto che hanno nell'attuale situazione i piccoli partiti e persino i partiti costruiti su di un personaggio nei confronti delle forze maggiori. Che l'abolizione della quota proporzionale non possa realizzare quest'obiettivo pare evidente visto che il potere di ricatto deriva alle forze minori non dalla quota proporzionale ma dal fatto che proprio il sistema maggioritario espone le forze maggiori al rischio di perdere in diversi collegi per una manciata di voti e che, di conseguenza, le manciate di voti da comprare in qualche modo tendono a crescere. Gli stessi fautori del maggioritario secco appaiono poco credibili nel ruolo di nemici dei partiti minori visto che sono proprio espressione del sottobosco parlamentare che pretendono di potare. È, insomma, lecito il sospetto che i radicali ed i loro amici vogliono aumentare e non diminuire il ruolo delle micromafie politiche in generale ed il proprio in particolare.

Il fronte dei fautori del ritorno al proporzionale appare meno bizzarro nelle argomentazioni ma non meno disomogeneo dal punto di vista programmatico. Vede, infatti, un'alleanza che va da Rifondazione Comunista a Forza Italia passando per le schegge postdemocristiane ed è unito da motivazioni assi diverse.

Forza Italia vuole, con ogni evidenza, ridurre la necessità di un'alleanza blindata con Alleanza Nazionale che, a sua volta, difende il maggioritario per non correre il rischio di essere messa in angolo.

Il PRC punta sul proporzionale per sottrarsi alla doccia scozzese del passaggio reiterato e sconvolgente per lo stomaco della sua base dall'opposizione "dura" al centro sinistra all'alleanza obbligata "contro la destra neoliberista" con lo stesso centro sinistra.

Le schegge postdemocristiane, infine, sperano che il proporzionale permetta loro di mettere in cantiere la sospirata rinascita della DC ed il recupero della loro base elettorale passata ormai armi e bagagli a Forza Italia.

Come si vede, un'alleanza fragile e determinata da ragioni contingenti che nulla hanno a che fare con una visione condivisa di modello di società o, ameno, di rappresentanza politica.

Da un punto di vista più ampio, emerge con chiarezza il fatto che il sottosistema politico è totalmente incapace di darsi delle regole di funzionamento tali da sottrarlo a tensioni continue e che, all'inizio del 2000, siamo in una situazione simile a quella che contribuì a determinare, all'inizio degli anni '90, la fine della prima repubblica.

Lo stesso affermarsi di posizioni strumentalmente astensioniste sulla questione referendaria dimostra che il sistema dei partiti non riesce a riformarsi da solo e che galleggia nell'attesa di un qualche, provvisorio, punto di equilibrio.

Spicca in quest'allegra compagnia, come un pugile suonato, il partito dei DS che avrebbe tutto l'interesse ad una riforma elettorale in senso proporzionale e maggioritario a doppio turno per sottrarsi alla pressione della dozzina di famelici alleati che oggi lo attorniamo ma che, pur di restare al governo, difende i referendum e il modello maggioritario che ha concorso a determinarne la marginalizzazione come partito di massa. Appare, infatti, evidente che l'apparato dei DS è pronto ad accettare la fine del proprio partito di riferimento pur di sopravvivere come ceto di professionisti della mediazione sotto qualsivoglia bandiera.

Il problema, dal nostro punto di vista, è lo spazio che si apre, nella crisi della mediazione politica, per la critica della politica e per l'affermazione della centralità della questione sociale. Non è un passaggio automatico ma su questo terreno si gioca lo spazio per l'opposizione sociale nei prossimi anni.

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