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Da "Umanità Nova" n.19 del 28 maggio 2000

Politiche razziste a Venezia
Non parliamo più di accoglienza

Gani Berisha, nato nel 1949 a Obilic, Kosovo, arriva a Venezia nel 1992. Con lui arrivano la moglie, Baharjie, e due dei 7 figli, Muharem di 8 anni e Arben, 11 anni. Si accampano, con diversi altri Rom in fuga dalla guerra in Jugoslavia, in posti diversi, sino ad arrivare a S. Giuliano, tra Mestre e Venezia, in un campo alle spalle del distributore di benzina, nascosti agli occhi degli automobilisti da siepi e recinzioni. E' qui che tutto comincia, alcuni volontari provenienti da ambiti sociali e politici oltremodo differenti si ritrovano a frequentare il campo spontaneo, fangoso e maleodorante, e, insieme a qualche decina di adulti e centinaia di bambini e ragazzini serbi e kosovari, chiedono con forza che si pratichi la politica dell'accoglienza per chi fugge dalla guerra, che il Comune di Venezia si dimostri in grado di dare una risposta ai bisogni di (circa) un paio di centinaia di persone. Manifestazioni, occupazioni, presenze massicce in vari consigli comunali portano alla realizzazione, nel Œ94, del Campo profughi di S. Giuliano, finanziato con fondi statali, che va ad affiancarsi a quello di Zelarino del Œ93, realizzato dalla precedente giunta democristiana. Entrambi i campi sono pensati come temporanei.

Gani Berisha e la parte di famiglia presente trovano posto nel nuovo campo, hanno a disposizione due roulotte, una per i genitori, una per i figli, due roulotte piccole con una veranda sul davanti, di plastica, gelida d'inverno, già distrutta dalle intemperie quando arriva l'estate. Lentamente il numero dei figli di Gani e Baharjie aumenta, non per nuovi nati ma perché, con l'aiuto di amici compiacenti (e ben pagati) riescono a far arrivare i figli lasciati nell'ormai ex Jugoslavia. Arriva prima la più piccola, Sergiana, non ancora 3 anni, e poi Ferdeza, 15 anni. Arriva Emran, un paio di anni fa, 8 anni, si iscrive come tutti gli altri a scuola e impara velocemente l'italiano, come tutti gli altri, fino a farci dimenticare che è arrivato da poco, è più in gamba di tutti , lui.

La vita al campo è sempre uguale, i dipendenti della cooperativa, assunta e stipendiata con i fondi statali, controllano le entrate e le uscite, in generale l'andamento quotidiano. Tra i bagni, quattro per gli uomini e quattro per le donne, ce ne sono sempre di rotti, spesso manca l'acqua calda per le docce, quattro per gli uomini e quattro per le donne, le lavatrici non vengono mai messe in funzione perché potrebbero rompersi. Non si provvede ad alcuna struttura comune. D'inverno c'è fango e d'estate polvere e zanzare, esattamente come nel vecchio insediamento abusivo. La gente continua a dire che i profughi ricevono 35.000 lire al giorno dal Comune, i giornali di tanto in tanto lo scrivono, nessuno smentisce. Il fatto che quei soldi stanziati dallo Stato vengano utilizzati dal Comune esclusivamente per le spese di gestione del campo e soprattutto per gli stipendi dei sorveglianti, non interessa a nessuno. Il fatto che la presenza di alcune centinaia di profughi sul territorio comunale abbia contribuito a creare numerosi posti di lavoro per i "locali" (assistenti sociali, mediatori, animatori, dirigenti di servizi, guardiani, altro ancora) non salva i profughi dall'etichetta di indesiderabili né li esime dall'essere un problema.

Gli abitanti dei campi vengono chiamati ospiti, sottolineando così la loro precarietà e dipendenza dai padroni di casa, gli unici che possono fare le regole: non viene mai riconosciuto il protagonismo che avevano assunto durante le lotte, non viene data loro la possibilità di intervenire nella gestione del luogo di vita, li si minaccia spesso di abbattere le baracche costruite per ampliare e migliorare le condizioni abitative, più volte si comunica loro che i campi verranno chiusi, invitandoli a tornare in patria (anche con incentivi economici) e comunque a sgomberare.

Accoglienza? Tolleranza.

I profughi vivono ai margini della città, della società, dimenticati nei campi, alcuni se ne vanno, diversi trovano lavoro, qualche famiglia trova casa con l'aiuto dei volontari, qualcun'altra su scorrimento delle graduatorie per gli alloggi popolari.

Oblio e abitudine, sino ad arrivare alle tensioni in Kosovo, ai bombardamenti, alla fuga dai territori pericolosi di altri Rom, molti dei quali padri, mogli, figli di quelli che sono già qui, a S. Giuliano, perché a Zelarino ci sono i Rom serbi.

Baharjie, la moglie di Gani, piange spesso, non sa più niente dei figli rimasti di là, ce ne sono ancora tre, due sposati e uno piccolo, più piccolo di Emran. Obilic, il loro villaggio a pochi chilometri da Pristina, non esiste più. Che fare? In giugno, insieme ad altri parenti dei Rom del campo, arrivano gli ultimi figli di Gani, i due maschi, quello sposato, con moglie e tre bambini piccolissimi, e quello piccolo. La femmina, sposata, sceglie di restare in Kosovo. È una grande festa, finalmente la famiglia è riunita dopo così tanto tempo e non è l'unica, sono sette le famiglie del campo che sono complete, anche se non di scelta si tratta ma di necessità.

È a questo punto che il Comune dichiara: La USL ci intima di allontanare i nuovi venuti dal campo di S. Giuliano, le condizioni igieniche sono diventate intollerabili. Offriamo loro di andare a Crotone, ce li portiamo in pullman, gli paghiamo il biglietto di treno. Non dimentichiamo che tra di loro ci sono anche persone violente e delinquenti.

Gli abitanti del campo sostengono che le condizioni igieniche tali erano da tempo, che non vogliono perdere di nuovo i loro parenti, naturalmente non hanno voce in capitolo, non sanno di essere delinquenti.

Una mattina di settembre, molto presto come sempre si fa in questi casi, la polizia massicciamente e pesantemente interviene, impedisce a chiunque di recarsi al lavoro o a scuola, non ci si può allontanare dal campo né vi si possono avvicinare giornalisti e amici. Vengono distrutte roulotte e baracche, viene distrutto tutto ciò che esse contengono, compresi effetti personali, una lista segnala gli indesiderabili e le famiglie che non hanno diritto a restare. Per conservare l'unità familiare si allontana dal campo anche chi ci vive dall'inizio, può così andare con moglie e figli a Crotone, in fondo cosa cambia, torneranno ad essere nomadi. Nessuno accetta la nuova destinazione.

Imer Berisha, al campo da sempre, deve dormire fuori con la moglie arrivata da poco, già incinta, e i loro tre figli. Qualcuno va via, si comincia a parlare del Belgio come terra d'accoglienza, pare che diano alloggio e sussidio ai kosovari.

Gli altri rientrano grazie all'intervento della Rete Antirazzista e di alcuni, troppo pochi, politici. Il rientro non è ufficializzato, c'è silenzio su tutta la vicenda, per noi non c'è modo di bucare l'informazione.

Gani e sua moglie Baharjie consultano i figli, vogliono andarsene, vogliono provare il Belgio, sono stanchi di non essere umani. Nonostante il parere contrario dei figli che sono cresciuti qui, che qui vanno a scuola e parlano l'italiano meglio di tanti altri, decidono di ricominciare altrove. Bruciano quasi tutto ciò che hanno, che importa la roba? ci ha detto Baharjie, con due automobili se ne vanno verso una città di cui non sanno pronunciare il nome, è il 23 dicembre del 1999.

L'incontro con i Rom e la loro frequentazione ci ha cambiati, così come continuano a cambiarci gli stranieri con cui quotidianamente veniamo in contatto.

Concetti quali accoglienza, integrazione, hanno perso il senso positivo che prima attribuivamo loro, sanno di carità mascherata perché si fondano in ogni caso su presupposti buonisti e non di riconoscimento di diritti, di eliminazione dell'emarginazione economica e sociale e delle discriminazioni giuridiche cui i Rom sono, in ogni luogo e primi tra tutti, sottoposti.

L'incontro di Firenze

Sabato 22 gennaio, a Firenze, si è svolto un incontro, molto affollato e partecipato, tra associazioni che lavorano in materia, giuristi, operatori sociali, Rom e Sinti e le cose che, fondamentalmente, tutti abbiamo sottolineato sono:

- la mancanza di normative precise che tutelino profughi, rifugiati, richiedenti asilo o in attesa di permessi umanitari e pertanto l'impossibilità, soprattutto per coloro che sono arrivati dopo i bombardamenti NATO, di regolarizzare la loro posizione e di poter accedere a lavoro, servizi, e di poter camminare senza temere un decreto d'espulsione;

- la necessità di superare i campi nomadi, di accoglienza, sosta o altro, tutti i campi in cui Rom e Sinti vengono parcheggiati o spontaneamente, in assenze di tutto, si installano. Superamento graduale, che non vuol dire chiusura dei campi punto e basta o rimpatrio forzato, con coinvolgimento delle parti interessate nella definizione degli interventi da realizzare;

- il rifiuto dei progetti che ancora vedano i Rom oggetto e cooperative, associazioni, enti locali protagonisti nonché beneficiari economici dei progetti stessi. Di tutta la pioggia di danaro che si è riversata su chi si è "interessato" di loro, ai Rom non è arrivata neanche una goccia né è migliorata la loro situazione;

- invito a diffondere e a far conoscere le esperienze positive che pur ci sono state, in particolare nell'ambito delle iniziative rivolte all'infanzia (inserimento scolastico con mediatori culturali Rom e altro), in ambito culturale (soprattutto la collaborazione tra donne) e, anche se ancora troppo poche, le soluzioni abitative che alcuni comuni (vedi Firenze) hanno adottato.

Nell'insieme, dall'incontro di Firenze, emerge la voglia di tutti di porre fine all'assistenzialismo che pone gli assistiti in condizione subalterna rispetto al resto del mondo, quello buono, che dà come, quando e se lo decide.

È recentissima invece la delibera del Comune di Venezia che affida all'ennesima cooperativa del privato sociale l'incarico milionario di chiudere i campi di S. Giuliano e Zelarino, facendone di due uno solo, inserendo alcune famiglie (quali? Con quali criteri si procederà all'individuazione dei fortunati?) in abitazioni e rimpatriandone altre (quali? Nessuno vuole andare via), il tutto in soli sei mesi di tempo. In sei mesi si dovrebbe fare quello che in sette anni non è stato fatto, affiancando nuovo personale a quello già esistente, escludendo gli abitanti dei campi da decisioni che li riguardano, dando vita a una crudele lotteria della casa e dei diritti.

In chiusura per i Rom, per noi, per tutti gli stranieri l'augurio di continuare a cambiare insieme, noi stessi e il mondo.

Rete Antirazzista Venezia



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