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Da "Umanità Nova" n.20 del 4 giugno 2000

Il conflitto tra Etiopia ed Eritrea
Facciamo un passo indietro

I conflitti africani, quando esplodono, lasciano sempre attoniti. Forse questo si potrebbe dire di tutte le guerre, ma nel caso africano quest'impressione è se possibile ancora più marcata. Non si capisce mai quello che è successo: all'improvviso giornali e televisioni incominciano a vomitare immagini di violenza inaudita e a raccontare di massacri e mutilazioni, si parla di guerre tribali, di signori della guerra, di bambini-soldato, di fanatismi contrapposti, tutt'al più di interessi economici di multinazionali (come per il caso dei diamanti in Sierra Leone), di campi profughi, di carestie, ma il tutto viene mischiato in un unico calderone mediatico che trasmette un'impressione costante di fatalità e di ineluttabilità. Tutto pare accadere per caso, come se si trattasse di gente che ciclicamente non può far altro che scannarsi, quasi per perversa natura. Poi i riflettori si spengono e tutto cade nel dimenticatoio, fino al prossimo bagno di sangue. È ciò che sta accadendo anche per il conflitto tra Etiopia ed Eritrea, un conflitto che tra alti e bassi sta insanguinando il Corno d'Africa da quarant'anni a questa parte. Ad ogni scoppio di violenza l'occhio da voyeur delle telecamere scava negli orrori con minuziosa attenzione, ma quella che quasi sempre viene tralasciata è una ricostruzione storica degli antefatti, oltre ad una collocazione seria dei conflitti in una cornice che li doti di senso. Eppure anche solo tra le immagini diffuse ce ne sono certe che da sole, senza commenti, dovrebbero bastare a far riflettere. Sulla Stampa del 13 maggio scorso c'è una foto emblematica: vi si vedono militari di Addis Abeba che sfilano in uniformi stracciate esibendo armi ultimo modello. Il costo di ognuna di quelle armi, da solo, potrebbe coprire le spese per sfamare il famoso "bambino denutrito dalla pancia gonfia vittima di carestia" che non manca mai, e che infatti si vede proprio nella foto a fianco della precedente. Da dove vengono quelle armi? Chi le produce? Chi le vende? Con quale denaro sono state pagate? Questi interrogativi sono destinati il più delle volte a restare senza risposta. Nel caso del Corno d'Africa, ad esempio, il complesso intreccio che a partire da un atto dovuto come l'aiuto umanitario giunge a finanziare l'acquisto di armamenti viene raramente indagato. Il fatto che l'allarme carestia lanciato da mesi dal premier etiope Zenawi sia servito in primis a rastrellare risorse buone per l'acquisto di armi e munizioni, o il fatto che un Putin si mantenga a galla proprio smerciando nel terzo mondo quegli armamenti di cui gli arsenali dell'ex Unione Sovietica sono pieni, sono fatti ormai appurati, ma questo non gli impedirà di ripetersi in altri tempi e in altri luoghi, vista l'efficacia del sistema. Se poi cerchiamo di capire dai mass-media quello che è l'"altroieri" dei conflitti, cioè gli antefatti e il retroterra su cui si colloca una guerra, ci troviamo a muoverci in un vero e proprio buco nero dell'informazione: chissenefrega, non fa audience.

Proviamo allora a fare un po' di ordine. La guerra tra Etiopia ed Eritrea è forse la prima guerra di liberazione post-coloniale interafricana, con l'Etiopia a fare la parte del paese colonizzatore, subito dopo che l'Italia e l'Inghilterra se ne sono andate lasciando il campo libero. Comincia quando, all'inizio degli anni Sessanta, l'imperatore Hailè Selessiè annette d'autorità il territorio eritreo, che le Nazioni Unite volevano soltanto federato all'Etiopia. Continua per anni in tono minore, animato perlopiù da sparute bande armate, fino alla rivoluzione etiopica del '74 e all'entrata in campo dei sovietici a fianco di Menghistu nel '78, quando si trasforma in un conflitto in piena regola. Siamo ancora nel pieno degli anni della guerra fredda e il destino dell'Africa - come di molte altre parti del mondo - è legato alle sfere di influenza delle due superpotenze planetarie. Il regime di Menghistu è abbondantemente foraggiato dall'Unione Sovietica che contribuisce in maniera decisiva a creare quella che per anni è stata la più potente macchina da guerra del continente africano, cioè quella etiope. Il delirio di potenza di Menghistu e dell'alleato Breznev è rappresentato come meglio non si potrebbe in un recente libro del grande reporter polacco Kapuscinski con la descrizione di Debre Zeit, un immenso cimitero di armamenti pesanti di ogni tipo a poche decine di chilometri da Addis Abeba. Come ad altre potenze capita in quegli anni (vedi Stati Uniti in Vietnam), un apparato militare soverchiante si scontra però con un'accanita e motivata resistenza popolare: quella eritrea appunto. Per gli eritrei è una guerra d'indipendenza, per Menghistu e la sua nomenklatura un'irrinunciabile questione di potenza e prestigio, per i governi occidentali (e soprattutto per l'Italia, che non ha mai saputo e voluto affrontare le sue responsabilità in quanto ex potenza coloniale nell'area del Corno d'Africa) un affare interno etiopico. Il conflitto resta in fase di stallo per anni, con le forze etiopi che scaricano allegramente napalm e gli eritrei che per difendersi cominciano a scavare rifugi segreti, corridoi e nascondigli mimetizzati, fino a costruire un vero e proprio stato parallelo sotterraneo, nel senso letterale del termine (un film già visto, no?). Tutto questo fino a quando nel 1991, in coincidenza con il tracollo sovietico, il fronte di liberazione eritreo libera Asmara pochi giorni prima della caduta di Menghistu e della sua fuga, tra l'altro alleandosi al fronte tigrino, partito che andrà al potere subito dopo in Etiopia. Sembra la fine di un incubo, tanto più che i due nuovi leader - l'etiope Meles Zenawi e l'eritreo Isaias Afeworki - per un periodo paiono andare d'amore e d'accordo e sembrano volersi gettare definitivamente alle spalle il trentennale conflitto tra i loro due paesi.

Cosa si lascia dietro però un conflitto come questo? Innanzitutto due eserciti che da un giorno all'altro si ritrovano disoccupati. Non si tratta di quattro gatti: l'esercito di Menghistu - crollato miseramente e clamorosamente alla notizia che il suo capo era fuggito (anche qui un film già visto: chi si ricorda dell'8 settembre 1943?) - contava quattrocentomila soldati, quello eritreo centomila (su una popolazione di circa tre milioni di abitanti). Si tratta di gente armata, difficile da controllare, che da un giorno all'altro non ha più un'occupazione e verosimilmente nemmeno uno stipendio. Teniamo conto che in situazioni di estrema povertà come spesso quelle africane, un'arma può essere il discrimine che fa la differenza tra il morire e il sopravvivere: sono questi i famosi eserciti degli ormai famigerati signori della guerra delle romanzate ricostruzioni giornalistiche. In più si tratta di stati dai confini artificiali, eredità del periodo coloniale, che non hanno nessun legame con la storia delle genti locali; e se è vero che i confini sono sempre artificiali, questo è ancora più vero per i paesi africani che non hanno una tradizione statuale codificata ed autoprodotta, ma che l'hanno soltanto subita in seguito alle colonizzazioni europee.

Abbiamo a che fare quindi con due stati-nazione di recente formazione (quello eritreo addirittura di recentissima) i cui due governi, per tenere insieme spinte centrifughe al proprio interno e per legittimarsi in quanto entità statali legittime, si trovano costretti ad adottare politiche ipernazionalistiche che inevitabilmente diventano man mano più aggressive. A questo punto basta un pretesto qualsiasi - che per l'Etiopia può essere il mancato sbocco sul mare (storia già vista pure questa) - per scatenare nuovamente il conflitto. Del resto l'esplosione/implosione dello stato -nazione come modello storicamente dato che si verifica ormai anche in Occidente (vedi Balcani), assume sicuramente caratteri più netti e drammatici in quelle entità nelle quali più debole e meno radicata è l'idea di un'entità accentrante e includente.

Probabilmente la ricostruzione qui proposta è affrettata e semplicistica, ma il punto è che non è possibile esimersi da una ricostruzione storica in casi come quello della guerra tra Etiopia e Eritrea, pena un'assoluta mancanza di comprensione di ciò che sta accadendo. È vero che sarebbe necessario andare ancora più indietro e analizzare ad esempio le responsabilità dell'Italia coloniale di giolittiana e mussoliniana memoria, ed è vero anche che bisognerebbe indagare con attenzione gli attuali interessi in gioco e le varie correnti più o meno nascoste di traffici d'armi e porcherie varie che sicuramente corrono a fianco di questo come di altri conflitti, ma quello che premeva qui era di collocare i fatti secondo una prospettiva diversa da quel fatalismo astorico con il quale vengono dipinti il più delle volte dai mass-media.

Per approfondimenti, anche oltre il Corno d'Africa, si consiglia la lettura di tre interessanti raccolte di reportage pubblicate recentemente:

1) Tommaso Besozzi, Il sogno del settimo viaggio, Fazi

2) Pietro Veronese, Africa reportage, Laterza

3) Ryszard Kapuscinski, Ebano, Feltrinelli

Rinaldo



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