unlogopiccolo

Da "Umanità Nova" n.20 del 4 giugno 2000

La scelta, la semplicità dei modi, l'arbitrio dei fini
Senza rete. Dei mezzi e dei fini

Siamo in pieno deserto, e due persone sono rimaste bloccate per il guasto della loro vecchia Jeep.

Presumibilmente i soccorsi tarderanno una settimana ad arrivare.
L'acqua nella borraccia è a stento sufficiente per mantenere in vita una delle due.

Se i due non si accordano moriranno entrambi nel giro di tre giorni.
Se si accordano uno sopravviverà alla esperienza e l'altro dovrà morire di sete.

È una ipotesi da laboratorio: la teoria dei giochi , anche in questa mia versione elementare, permette di ottimizzare le scelte se uno sa quello che vuole ottenere, cioè quale sia la ipotesi vittoriosa. Il gioco si vince se almeno uno si salva? O si vince se i due, contentandosi di vivere solo tre giorni, si mantengono in una posizione di solidarietà paritaria? O si vince se entrambi si uccidono per non sottostare alla necessità di scegliere?

Ed ancora se la prima ipotesi è quella prescelta come avverrà la scelta? Una monetina, una analisi della rispettiva situazione esistenziale (famiglia, voglia di vivere, paura della morte, età , sesso, progetti per il futuro, utilità per il "genere umano" sono tutti criteri teoricamente adottabili insieme a moltissimi altri) o instaurarando una lotta dove vinca il più forte, ed in cui magari si muore insieme però lottando per vivere?

Probabilmente se il problema della strategia per ottenere o, quanto meno, per migliorare le possibilità di ottenere una meta è sempre teoricamente e praticamente affrontabile e risolvibile in termini razionali quello della scelta della meta pare sempre opinabile, legato come è a considerazioni etiche, a convinzioni religiose, a fattori ideologici, a spinte istintuali.

Anche in una situazione da laboratorio cosi semplificata come quella dell'esempio, ogni volta c'è la necessità di chiedersi: "però, cosa vogliamo ottenere?"

La determinazione della meta attiene alla scala di valori cui uno aderisce, quella dei metodi per perseguirla sembra permettere invece una valutazione oggettiva, scientifica, razionale, ed addirittura verificabile (nei limiti in cui si può verificare qualsiasi cosa: sarebbe meglio forse usare un altro termine meno forte: diciamo, confortabile) attraverso l'ottenibilità stessa dell'esito desiderato.

Se io voglio allevare cavalli da corsa (e mi scusino gli animalisti se l'esempio risulta molesto) ci sono scelte selettive (allevamento) e pratiche (allenamento) abbastanza precise per ottenere la velocità , mentre se voglio allevare cavalli da fatica ci sono metodi ben diversi per ottenere la resistenza e così via.

Per cui dato uno scopo (che voglio: resistenza o velocità?) si puòdire che quello che si fa è corretto e "giusto" in quanto davvero compatibile, coerentemente finalizzato, con quello che si vuole.

Ci si potrà in seguito persino dire, quasi con cognizione di causa: ho sbagliato o meno.

Mentre per il problema se sia giusto o meno lo scopo ultimo che uno si prefigge la situazione si fa assai più confusa ed alla fine di una lunga serie di perché si finisce con un punto fermo: "È giusto perché è giusto così, e basta !".

Persino l'eventuale esistenza di un Dio come "supremo "orientatore delle mete e dei valori, non risolverebbe il problema dell'ultimo Perché e ci porrebbe ancora nell'ambito dei "Come".

"Se voglio fare la volontà del Dio in cui credo come devo comportarmi?"

"Se voglio aderire alla Sua Giustizia quale sono le azioni buone?"

E posso teoricamente trovare delle risposte sulla coerenza e compatibilità delle mie scelte, dare una risposta ad ogni singolo perché delle mie azioni e dei miei pensieri, anche se solo dopo l'atto di fede.

Ma se già devo rispondere alla domanda "Perché voglio fare la volontà di Dio, e perché considero giusto quel che da Lui mi proviene?", alla fine di molti tentativi aperti, finirò comunque alla risposta apodittica : "perché è giusto così per definizione!".

Nella valutazione dello scopo ultimo ("quello cui ambisco", il fine, la meta) il gioco infantile dei perché alla lunga finisce in questo vicolo cieco (come succede anche nelle risposte alla fine annoiate "dei grandi") mentre, al contrario, nella valutazione dei mezzi lo stesso gioco si esaurisce subito ("dato uno scopo, perché faccio questo? perché penso che cosi ottengo quello cui ambisco, vedi?").

Il pensiero anarchico ha una sua specificità .

I suoi scopi e ed i suoi fini sembrano collegati a doppia mandata.

Per cui i suoi fini non solo devono apparire per definizione teoricamente compatibili allo scopo cioè al raggiungimento della meta, cioè tendere ad essa, ma, per essere tali, devono anche, e in ogni momento, essere "coerenti" con essa, perché questa coerenza continua va a costituire il conforto necessario e imprescindibile per ogni singolo momento del processo .

Un esempio: molte utopie colonialiste giustificavano (e giustificano) la situazione di assoggettamento di un popolo con la considerazione per cui un processo di maturazione verso la libertà e l'indipendenza deve essere guidato, controllato, aiutato da una situazione di dominio provvisorio che ne incanali le potenzialità verso il giusto destino.

È chiaro invece che, all'interno del metodo anarchico, l'unico modo per avvicinarsi o addirittura per raggiungere la libertà e l'indipendenza è attraverso un percorso segnato in ogni momento da scelte perennemente orientate verso la libertà e l'indipendenza (scelte "connaturate", che abbiano sempre, cioè, la stessa natura e qualità del fine che si vuole raggiungere).

Per questo nell'anarchismo non sembrerebbe esserci soluzione di continuità fra tattiche e strategia.

Ed è per questo che ogni volta che noi siamo costretti, nella vita di ogni giorno, "per praticità", per "realismo", per compromessi più o meno "astuti" o imposti, ad allontanarci dai principi antiautoritari (che abbiamo eletto come mete!), non abbiamo la consolazione dei preti che dicono "lo si fa a fin di bene", che è quella dei politici più o meno illuminati, ma anche dei genitori, dei c.d. "educatori", ma anche di una miriade di situazioni interpersonali quotidiane.

Tutti possono darsi questa consolazione tranne gli anarchici !

Ed è chiaro che non intendo con tutto ciò suscitare un sentimento di colpa verso un certo grado di incoerenza più o meno indotta, più o meno imposta, che caratterizza le nostre scelte quotidiane, quanto tentare di chiarire senza infingimenti che in essa si annida ogni volta (e talora inevitabile) una microvittoria del Potere.

Solamente con questo riconoscimento, con questa presa di coscienza si può riprendere il percorso verso una meta che, in certi momenti, perdiamo (o vogliono farci perdere) di vista.

Alfredo Salerni



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