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Da "Umanità Nova" n.21 del 11 giugno 2000

Dibattito
Rivoluzione nell'epoca della globalizzazione

La lenta mutazione, probabilmente in senso dissolutivo, degli stati nazionali implica non solo una deterritorializzazione delle forze dominanti, ma anche un analogo movimento che taglia da sotto le gambe un terreno di radicamento per progettualità rivoluzionarie. Sino ad oggi, infatti, nonostante la retorica discorsiva utilizzata, è stato perfettamente plausibile praticare un radicamento a livello nazionale - data la comunanza di condizioni linguistiche, culturali, materiali, economiche, sociali che tengono insieme le diversità entro un contesto territoriale definito dai confini nazionali - e quindi una pensabilità dell'evento-rivoluzione come esito di un processo-rivoluzione delimitato dagli effetti di potenza dati da quel radicamento.

La deterritorializzazione in atto implica così la frammentazione e dispersione di quelle condizioni su un campo più dilatato, talvolta a dismisura d'uomo, mentre il raggio di azione del singolo individuo è sempre costitutivamente limitato (pertanto anche le nostre possibilità di radicamento). Incidere sui processi deterritorializzati fuoriesce dalle nostre forze ristrette da un radicamento nazionale? Se per esso si intende solo quell'antagonismo ai poteri locali, governi nazionali inclusi, allora la risposta tenderà all'affermativo. Se per radicamento si intende, invece, la sperimentazione diffusa sul piano sociale, e non esclusivamente politico, di un immaginario progettuale che si sottrae alle condizioni di dominio per praticare con la dovuta gradualità processi-altri, anche in assenza di una prospettiva dell'evento-rivoluzione, allora la risposta potrà tendere al negativo.

Sottolineare maggiormente la rivoluzione come processualità, come divenire, piuttosto che come evento catartico finale, significa tuttavia adottare un modello centrifugo di trasformazione sociale, caratterizzato da sperimentazioni che risultano altamente confliggenti con l'esistente nella misura in cui, sottraendosi alla cappa di normalità, praticano deviazioni diffusive che mutano l'insieme eliminando vecchie pratiche e vecchie logiche, in quanto spiazzate (e non meramente surrogate con altre equivalenti).

Più le pratiche si innervano a contagio, disseminandosi e proliferando per luoghi senza distinzione di nazionalità - e qua torna in auge un rinnovato transnazionalismo dal basso - maggiori saranno le possibilità di trapiantare una differente organizzazione della vita che si trasforma da infra-società alternativa a plurimodello che gradualmente scaccia quello vecchio e inaugura, senza soluzione di continuità, un nuovo modo di autorganizzazione sociale.

C'è infatti un altro elemento da dover tenere in conto. È pensabile una rivoluzione - come evento finale, non come divenire processuale - in un solo paese nell'era della globalizzazione anche politica? Per fare un esempio, è possibile pensare una rivoluzione in Italia senza che i poteri forti di Francia e Germania, per dire, stiano a guardare aspettando l'effetto-domino (vera causa dell'intervento americano in Vietnam, secondo la lettura di Chomsky, per il quale quella guerra è stata vinta dagli Usa)? Se l'UE ingerisce finanche nella democrazia interna di un paese come l'Austria, in cui una significativa quota della popolazione, colta come corpo elettorale, manda al potere democraticamente i neonazisti di Haider, cosa sarebbe capace di fare contro un membro sconquassato da una metamorfosi sociale che abbatte un regime alleato minacciando la stabilità dell'insieme?

È ovvio che occorre pensare un divenire rivoluzionario che trasformi, prima ancora che possa inverarsi in un evento rivoluzionario, i termini delle alleanze politiche dei poteri dominanti, o neutralizzandone la forza d'ingerenza e d'intervento rendendo improficuo il ricorso, oppure insinuandosi, tramite controalleanze dal basso, per minarli a loro volta in patria. Ma questo vale verso i poteri politici. Ma oggi i poteri reali dei capitali, che non hanno capitale geografica da destabilizzare, ma solo affari e business, reti finanziarie e élite ultraminoritarie di comando, dispongono di una forza propria sovente superiore a quelli di alcuni governi; senza dubbio a livello economico e di disponibilità di spesa e di risorse da utilizzare in operazioni eversive.

Il paradosso di un divenire rivoluzionario è tutto politico, ossia non considera che la pressione delle condizioni materiali, per quanto omologate dalle globalizzazione, sarà vissuta e praticata differentemente da ciascun paese, in base a esperienze e storie pregresse. Tuttavia, non potendo aspettare passivamente che l'omologazione globale dia unità agli esclusi della storia (i dominati, gli sfruttati, gli emarginati, i perdenti), occorrerà allora disseminare alleanze senza avere il mito politico dell'unità politica o dell'affinità ideologica che indirizza le azioni delle sue componenti.

In altri termini, contro la pressione della globalizzazione, la risorsa delle differenze da mettere in gioco non è un passaggio tattico in vista del raggiungimento di una formazione altrettanto potente contrassegnata dall'unità strategica delle sue parti. Anzi, la costruzione federalista dal basso di movimenti di controglobalizzazione dovrà reinventare una politica che tenga insieme le differenze esaltandole e non funzionalizzandole a pretesi obiettivi comuni. Spiazzare la politica politicante sarà possibile solo su un piano di progettualità teorica e pratica che ritroverà nelle differenze diffuse su scala planetaria di volta in volta quei frammenti di modello a partire dai quali montare controcongegni di solidarietà, di politica extraistituzionale, di autogestione non-profit, di autogoverno comunitario con cui praticare la liberazione degli spazi e la densità libertaria, senza riproposizione di reistituzionalizzazioni di sorta.

Ma c'è un altro fattore da considerare quando si immagina una politica globale dal basso nell'era della globalizzazione. Secondo una vulgata rivoluzionaria, peraltro più vicino alla dialettica marxista che non al volontarismo anarchico (tanto per tracciare una distinzione grossolana), l'appartenenza al fronte di classe non è un dato selettivo soggettivo, ossia la singola consapevolezza di ascriversi ad una parte vale tutt'al più come sincera dichiarazione di fedeltà alla causa, ma è il fronte di divisione di classe a segnare la topologia della posizione inclusiva/esclusiva - chi sta di qua, chi sta di là, avendo ragioni di rivolta e istanza di cambiamento reale, legate alle condizioni materiali di esistenza che poi "dirigono" la coscienza (e non viceversa). Era naturale che, a fine secolo scorso, operai e contadini stessero di qua, borghesia e aristocrazia di là, anche se qualche borghese e qualche aristocratico simpatizzavano in buona fede umanitaria o addirittura si erano votati alla causa abbracciando le ragioni contro la propria collocazione di classe.

Se proviamo a dilatare su scala globale questo modello per quanto rozzo, ci accorgiamo che la linea frattale della divisione planetaria - tra nord e sud, tra ricchi e poveri, tra istruiti e analfabeti, tra uomini e donne, tra pieni di risorse per vivere e vuoti a perdere perché negati al diritto di sopravvivere - ci vede dalla parte dei privilegiati. E da quando in qua i privilegiati, pur avendo coscienza supplementare, ma di complemento ai "soggetti rivoluzionari" per definizione (il suono improprio rileva l'impraticabilità della categoria...), possono rappresentare il movimento che cambia lo stato delle cose reali? È possibile, in altri termini, una politica rivoluzionaria dei privilegiati, nel luogo del privilegio, contro il privilegio e i privilegiati stessi, a favore dei non-privilegiati maggioranza del pianeta, che sono tali in quanto collocati contro? Una politica rivoluzionaria all'altezza con le sfide e le divisioni del mondo che sia legata alle loro condizioni di esistenza e non alle suggestioni ideologiche della coscienza (che in quanto tale è mossa dalla realtà, e non muove la realtà)?

Il punto merita attenzione, a mio avviso, perché alla resa dei conti le controparti del sud potrebbero non riconoscere la nostra coscienza come loro alleata (nella migliore delle ipotesi, come loro infiltrati nel campo del nemico, ma con la direzione in mano loro; ma se sono tenuti apposta nell'abbrutimento e nella inculturazione?), e quindi spazzarci via insieme ai veri padroni del mondo. Tuttavia, nel frattempo, la nostra funzione potrà essere quella di minare il campo dei dominanti procurando collassamenti in molteplici modi, non ultimo un forte discorso sullo status di "noi privilegiati" in via di cessione progressiva di tali prerogative (senza però confronto possibile con chi non ha nulla sopravvivendo "informalmente" con 300 $ l'anno...).

La retorica del privilegio può essere rovesciata sino a farla diventare stile di vita differente, ecologicamente salubre, solidale, non consumistico, ecc., con l'apertura di una vasta area di conflittualità sociale che può preludere a pratiche sperimentali nel terreno economico (consumi, alimenti, energia, ad esempio), culturale (meticciato, istruzione) e politico (cooperazione transnazionale, rapporto sud-sud).

Un ultimo aspetto è quello demografico. Abbiamo una concezione della rivoluzione come evento estremamente battagliero, insurrezionale, forzatamente violento. Già questo modello dovrebbe avvertirci che il terreno della violenza, posto dal nemico, e visto il monopolio dell'attuale livello di tecnologie di armi, ci è precluso, a meno di non voler gestire "diversamente" noi stessi il terrore scatenato dalle nuove armi. Ma questo modello della rivoluzione come evento è vigorosamente giovanilistico, nel momento stesso in cui questo mondo occidentale, dove le lotte dovrebbero montare e avverarsi nella massima radicalità insurrezionale, marcia inesorabilmente verso una maggioranza di ultrassessantenni (nei prossimi due-tre decenni). Chi erigerà le barricate? Chi si scaglierà contro le truppe corazzate del nemico? Come potrà essere, eventualmente, una rivoluzione di minoranza?

È innegabile che quel modello sconta un mito insurrezionista che divorzia dai soggetti insorgenti, i quali non hanno da perdere solo le catene, già oggi, ma domani addirittura le dentiere! Quel modello, inoltre, divorzia anche da un divenire rivoluzionario come processualità che rende permanente e graduata (con le energie da investire, con i margini di manovra possibili, con gli spazi di compatibilità) una costante transizione che è già divenire mutevole e molteplice. Ciò vuol dire che dobbiamo relegare nel regno dell'impossibile una società compiutamente trasformata per accontentarci di una società indubbiamente vitale, in via di trasformazione, nella quale si aprono di continuo, e non certo per mero caso, ampi luoghi di liberazione e di libertà praticabili in maniera diffusiva, ma comunque coesistenti con il dominio?

Non credo che l'alternativa sia così netta, drasticamente scardinante rispetto alla nostra modernità. Tuttavia mi sembra evidente che dobbiamo attrezzarci a uno sforzo creativo per poter mettere in pista un'altra idea di rivoluzione che permei luoghi e mentalità non tutte figlie dei Lumi e della nostra tradizione eurocentrica. L'impasse del movimento zapatista non deriva dalla opzione coraggiosa ma obbligata di sottrarsi allo scontro frontale per mutare la società aggirando la questione del potere. È anche, su altri piani, la nostra impasse storica del dopo Spagna 1936, in cui il problema sostanziale per noi anarchici è praticare l'assenza di dominio come modalità coinvolgente le pratiche quotidiane degli individui - le uniche che inducano alla partecipazione attiva al di là delle retoriche seducenti e dei cicli della militanza di parte - ma in presenza delle forze del dominio che mirano a reprimere brutalmente oppure, secondo i rapporti di forza, ad attirare nel proprio campo magnetico, anche sotto forma dell'antagonista di turno la cui lotta rafforza inconsapevolmente quel campo di tensione al cui interno tutto si agita fisiologicamente e nulla si trasforma nel suo insieme.

Forse l'immissione di un rinnovato ciclo demografico, culturalmente decentrato rispetto ai Lumi, ma comunque sorretto da una corretta dose di memoria storica, potrà apportare innovazioni mirate nella pratica quotidiana, sino a metabolizzare l'urgenza del cambiamento qualitativo dell'esistenza prima che sia troppo tardi.

Salvo Vaccaro



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