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Da "Umanità Nova" n.23 del 25 giugno 2000

Carta di Bologna
Socializzare i costi, privatizzare i profitti

È sempre istruttivo leggere in filigrana i documenti ufficiali che emanano dalle stanze del potere globale. Innanzitutto, immagino che sia consolante sapere di partecipare a un incontro di livello, quale è stata la conferenza di Bologna alla presenza dei governi dell'Ue, della stessa Commissione presieduta da Prodi, di 22 paesi non Ue invitati e di un centinaio di organismi internazionali (dalla World Bank al Fmi, dall'Oil al Wto, dall'Apec all'Asean, dall'Unctad all'Undp, ecc. ecc.), e non sentirsi responsabili di quello che si delibera per la semplice ragione che le conclusioni sono state tirate... anticipatamente, a metà febbraio, quando è stata redatta la bozza della Carta di Bologna approvata con minime modifiche quattro mesi dopo dai partecipanti, sollevati di firmare quanto altri avevano deciso di far firmare. Come si dice, quando l'efficienza si sposa con la prevenzione: è lo stile di ogni processo deliberativo verticale in ambienti fortemente gerarchizzati.

Pur trattandosi di una "dichiarazione non legalmente vincolante" per i governi sottoscrittori - visto che ormai le sedi pubbliche della politica sono inessenziali al governo reale della vita dei popoli - quanto viene "solennemente" affermato seguirà le vie occulte di ogni politica globale, ossia le stanze ovattate dei comitati e del Consiglio dell'Ocse dentro le quali non è elegante mettere naso, come fu il caso del Mai. Sennonché...

La Carta di Bologna è stata sollecitata dall'Italia per esportare il proprio modello delle piccole e medie imprese nel mondo, delle quali si celebrano i successi non solo economici, grazie al lavoro nero, alla flessibilità lavorativa, ma anche addirittura sociali, in quanto elementi di rafforzo della "coesione e della stabilità" della società, del "processo di democratizzazione" in atto in tanti paesi in cui la privatizzazione di ampi segmenti di produzione di ricchezza "conduce ad una distribuzione del reddito più equa, contribuendo così ad alleviare la povertà, soprattutto nei paesi in via di sviluppo". Ocse dixit, e non si sa se mettersi a ridere, se vergognarsi di essere occidentali, se pensare di sognare quando si osservano le reali condizioni di vita in Africa o in America latina, tanto per fare alcuni esempi di privatizzazioni a beneficio di una globalizzazione dal volto umano, troppo umano.

Come sta emergendo sempre più evidentemente, la foglia di fico dell'umanitarismo buonista verso gli straccioni del pianeta non la si nega a nessuno, e quindi anche l'Ocse adegua il proprio linguaggio per far quadrare il cerchio tra sviluppo della piccola e media imprenditoria rigorosamente privata, stabilità macroeconomica (non si può fare mica la guerra alla grande industria), infrastrutture pubbliche a carico dell'erario, pratiche antidiscriminatorie (per gli imprenditori, non per i lavoratori più o meno colorati), buon governo (leggi corruzione) e regimi fiscali.

Ci si immaginerebbe un inno alla libertà di mercato, alla voglia di briglie sciolte, senza regole e legacci; invece il documento è stilato da gente seria, da uomini di mondo è il caso di dire, che sanno di cosa parlano, e che conoscono alla perfezione come il mercato sia una finzione buona per i divulgatori, gli ideologhi, gli ideologizzati e i parlamentari di Forza Italia e dei Ds. Infatti, il mercato per le Pmi va creato con l'intervento più che attivo dello stato, cioè del potere politico, eliminando "oneri e impedimenti", "semplificando le procedure amministrative, incluso il regime di tassazione, venendo così a ridurre i costi fissi di esercizio", incentivando "l'acceso ai servizi finanziari (contributi finanziari, incentivi fiscali agli investimenti in R&S e nella innovazione tecnologica)", consentendo l'ingresso delle Pmi nel ricco mercato dei "servizi tecnologici e di sviluppo" trainati dalla domanda pubblica, ossia dai pubblici poteri (leggi: appalti), incoraggiando "la mobilità delle risorse umane" attraverso la "formazione continua" e l'"educazione permanente" a carico dell'erario pubblico ma strettamente legato ai bisogni delle Pmi.

In altri termini, la potenza di fuoco delle Pmi sostenute dall'Ocse si traduce in una istanza (pietistica) di favore da parte dello stato a vedere in esse un partner cogestionario del potere nel campo economico, destinando ad esse una fetta di quei trasferimenti sotto vario titolo che hanno fatto la fortuna delle grandi imprese, beneficiarie della globalizzazione e della liberalizzazione attraverso le privatizzazioni di comodo di tutto quanto un tempo detenuto dal potere statale. Pantalone mette i soldi per le reti infrastrutturali (internodi di trasporto i cui costi sono redditizi solo a lungo periodo e non per la fame di profitti a breve termine che caratterizza il capitalismo predone di quest'era globale), per la plasticità culturale della forza lavoro, che va addestrata sin da piccoli e funzionalizzata alle esigenze padronali, senza però onerare minimamente questi dei costi notevoli di istruzione (per la motivazione, si veda sopra, oltre a quella storica di Godwin secondo la quale l'istruzione è sempre funzionale a chi la impartisce, sia esso lo stato o il potere privato degli imprenditori).

In fraseologia elegante, tutto ciò si traduce in programmi di partenariato pubblico-privato, in patti territoriali, in aree industriali (i famigerati consorzi di sviluppo industriale che hanno divorato centinaia di miliardi, almeno in Sicilia, senza produrre alcunché se non le personali fortune di pochi e un più che decoroso stipendio a funzionari di vario grado). Si pensa pure a internet e al commercio per via elettronico, con una chicca del genere che dissolve all'istante ogni barriera ipocrita di pudore democratico: si raccomanda il potere politico di incoraggiare "lo sviluppo di meccanismi di risoluzione di controversie al di fuori dei tribunali", cioè attraverso transazioni "on-line", senza garanzie di terzietà, neutralità e precostitutività delle regole nei confronti degli utenti-consumatori!

In ultima analisi, il documento si dimostra interessante perché sbugiarda i miti del mercato libero inesistente, in quanto sollecita minuziosamente tutta una serie di misure politiche per favorire le Pmi, destinando ad esse risorse pubbliche, quote di investimento pubblico, sostegno finanziario e creditizio (meccanismi di riassicurazione statale per i rischi nel commercio internazionale), defiscalizzazione di oneri sociali e strutturali (nei settori in cui è necessario una quantità di investimenti fissi, indivisibili e forti, tra i quali marketing e R&S): "l'impatto della globalizzazione sulle Pmi dipende in una certa misura dalla qualità delle politiche pubbliche poste in essere. (...) Le politiche pubbliche dovrebbero protendersi ed implementarsi non alla stregua di una barriera nazionale contro la globalizzazione, bensì da strumento che consenta la creazione di condizioni favorevoli ad una regolazione di mercato e da fattore selettivo che produca esternalità in vista di profitti dinamici e non statici. L'intervento pubblico può anche essere necessario per generare esternalità positive a favore delle Pmi. (...) È importante capire come la natura di beni, quindi la necessità dell'intervento pubblico, muti con il tempo, e come in diverse aree i beni possano esseri sia di origine pubblica che privata; il confine tra governo e mercato, e tra produzione pubblica e produzione privata di beni non può essere definito una volta per tutte. (...) Non avendo [le Pmi] potere di mercato, si giustifica così l'intervento pubblico. (...) In questa azione, è possibile individuare una funzione pubblica specifica, quanto meno nella fase iniziale, quando l'iniziativa spontanea di mercato si dimostra inefficace; più tardi, una volta partite, le iniziative possono autofinanziarsi secondo un modello organizzativo misto, pubblico-privato".

Ossia, per partire dateci i soldi finché l'impresa non sarà redditizia, poi privatizziamo i profitti! Ogni commento "scientifico" è superfluo.

Salvo Vaccaro



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