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Da "Umanità Nova" n.24 del 2 luglio 2000
Dominio globale e retorica dei diritti umani
Dalla guerra fredda alla guerra umanitaria
La modernità ci ha reso evidente tale passaggio dalla presa di
assunzione morale, necessaria ma insufficiente pena la rassegnazione
fatalistica nell'immobilismo, alla responsabilità politica dando luogo
alle comunità nazionali rette da usi e norme di diritto sancite da uno
stato occupato da élite politiche separatesi dalle forze sociali. Come
tale passaggio possa rispondere al problema globale oggi, se pedissequamente o
innovando, è tema di discussione aperta a molteplici percorsi di
esplorazione. Lo sforzo di universalizzare i diritti umani attraverso
l'occidentalizzazione del mondo, con fenomeni di attrito culturale con le
civiltà asiatiche o islamiche ad esempio, è affidato ai tempi
lunghi del meticciato culturale. Tuttavia, l'intervento umanitario circoscritto
entro tale cornice, in presenza di dissensi, enuncia esclusivamente una
politica culturale di potenza la quale, attraverso l'ingerenza umanitaria, mina
le prerogative delle sovranità deboli, parallelamente al modo in
cui, sul piano economico-finanziario, la globalizzazione e i suoi policentri
decisionali esautorano di potere i governi nazionali deboli, vanificando
i pur lodevoli percorsi di democratizzazione sul piano interno, laddove la
replica del modello egemone è una forma epocale di controllo mentre il
potere reale sfugge alla visibilità e alla trasparenza del processo
democratico stesso in sede locale per dislocarsi virtualmente nelle borse e
nelle stanze ovattate dell'OCSE, del WTO, del FMI, della World Bank, le quali
impongono "norme determinative di economie di mercato a nazioni non interamente
disponibili ad accettare tali obbligazioni internazionali" (Rosecrance, 57).
"La riorganizzazione della NATO come polizia mondiale (con o senza il permesso
del "governo" formale del mondo, l'ONU) è una affermazione potente
dell'intenzione di continuare a dominare il mondo sotto la stessa bandiera
sventolata nel "momento fondante" dell'applicazione politica della
modernità occidentale. Ciò accade, però, proprio mentre la
modernità è maggiormente messa in discussione fuori e dentro
l'Occidente" (Porete-Loguen, 53-4). Il nuovo interventismo umanitario, quindi,
si radica non sulla pretesa di giustizia o addirittura di norme statuite, ma
sul potere, il che fa dire a Michael Glennon quanto sia "rischioso per
la NATO riscrivere unilateralmente le regole di intervento nei conflitti
interni sulla base irregolare del caso per caso" (Glennon, 6).
Pur senza poter arrivare alla chiusura del circolo ermeneutico che
dall'insondabilità dell'obbligo politico all'obbedienza perviene alla
Grundnorm che regge sul piano interno il sistema di giuridificazione dei
conflitti anomici attraverso il ricorso, talvolta solo annunciato e non
realizzato, della sanzione deterrente, grazie al monopolio della forza
legittimamente spendibile, anche sul piano globale, sino ad oggi, un equilibrio
ordinato a livello internazionale era rappresentato da una trama di obblighi
vincolanti tra i partner alleati o ostili nell'arena mondiale che ha prodotto
un calo dei conflitti armati tra stati, anche grazie alla diffusione dei regimi
di democrazia che anestetizzano il conflitto prolungandolo su altri piani meno
distruttivi (in era nucleare), sia a livello interno che su proiezione esterna
(ossia su piani economico-finanziari, commerciali). È questo ordine
internazionale di giuridificazione asanzionale delle relazioni tra stati o da
organismi da essi costituiti (e in minima parte da organismi sovranazionali) -
dettata dall'adesione a vari gentlemen clubs (ONU in testa, ma anche le
sue agenzie UNESCO, UNICEF, e poi gli organi regionali), e poi ai vari trattati
multilaterali e bilaterali, e le carte dei diritti dell'uomo dal 1948 ai giorni
nostri - a entrare in cortocircuito quando si cerca una scorciatoia al
passaggio dalla denuncia morale, tipica della realpolitik che lascia
correre sino a quando non intervengono interessi nazionali da tutelare,
all'intervento umanitario, selettivamente istruito ma comunque potente nel
richiedere un'azione energica a difesa dei diritti violati con impunità
non più tollerabili.
Quali sono i criteri affinché un intervento umanitario, qui ancora
genericamente inteso (ossia non specificato quanto a attori e modalità),
a soccorso di vittime dei diritti violati - uomini e donne nella loro nuda
vita, al di là di appartenenze varie - possa essere moralmente
soddisfacente e quindi non prestarsi a dissimulare politiche aggressive di
potenza (neocoloniali o neoprotettorali, ad esempio)? Innanzitutto, la
legittimità morale di colui che interviene, la pluralità degli
strumenti di intervento intelligentemente idonei a non aggravare il danno, la
lucidità di una azione preventiva che sappia tempestivamente cogliere il
tempo opportuno e decisivo, il criterio della reciprocità della
condizione di azione umanitaria (chi esibisce soccorso a favore altrui deve
essere disponibile nell'eventualità a subire il soccorso altrui a
proprio favore), l'assenza di selettività sospetta nell'attivarsi
pertanto sempre e ovunque giacché nessuna condizione
esteriore può limitare la piena consistenza dell'intervento umanitario
pena la sua immoralità stessa.
Accanto a tali criteri, Antonio Cassese enuncia ulteriori cinque condizioni
precise: "1) Lo stato contro cui si usa la forza ha violato in modo gravissimo,
massiccio e ripetuto i diritti umani fondamentali; 2) il Consiglio di Sicurezza
ha ripetutamente invitato quello stato a porre termine ai massacri
[possibilmente prima che siano cessati per missione compiuta, sia detto senza
facile sarcasmo, il genocidio hutu in Ruanda insegna]; 3) è stata
tentata ogni possibile soluzione diplomatica e pacifica; 4) l'uso della forza
è sostenuto da un gruppo di stati e non da una singola potenza e la
maggioranza degli stati dell'ONU non è contraria a tale uso; 5) il
ricorso alla guerra non ha alternative rispetto alla prosecuzione dei massacri
da parte dello stato responsabile" (Cassese, 28).
Ma proprio su tali criteri e condizioni, quando operati dalla formazioni
politiche statuali, la realtà dei fatti denota oggi non tanto un
passaggio dalla morale alla politica, quanto la metamorfosi di una politica in
retorica umanitaria. Infatti "qualche dubbio sorge quando a siffatto nuovo
sovrano mondiale [gli Stati Uniti quali garanti di un "complesso sistema di
formazione di un nuovo diritto internazionale" in corso d'opera] si attribuisce
il potere o la volontà di "imporre il rispetto dei diritti umani". La
storia e la cronaca in cui siamo immersi ci confermano ogni giorno che tali
presunte prerogative vengono continuamente stiracchiate in una mutevole
geometria, dipendente non dall'uniformità di norme e precetti, ma
da convenienza e rapporti di potere su cui ancora può molto l'anarchia
della scena internazionale così come la tirannia dell'interesse
nazionale volta a volta confermata da svolte e rotture di fase" (Mortillaro,
125).
L'attuale sistema di relazioni internazionali ha cercato da cinquant'anni in
qua di neutralizzare il primato della forza, emblema della statualità
politica, attraverso una fitta innervatura di vincoli giuridici e politici
sanciti, a muovere dalla Carta dell'ONU. Innanzitutto, essa ha inteso conferire
pari dignità a ciascun stato (art. 2) decretando da un lato la
intangibilità della sua sovranità scolpita nella
fattualità del controllo del territorio, delle genti e dei confini
nazionali. Il battesimo di legittimità di uno stato (e del suo regime)
è il riconoscimento internazionale fondato su dati di fatto, e non su
criteri morali della sua formazione e del suo funzionamento (il Cile di
Pinochet fu riconosciuto legittimamente pur privo della legalità
dell'atto fondativo: il golpe contro un governo democratico; mentre
l'annessione di fatto di Timor Est da parte dell'Indonesia nel 1975 non
è mai stata riconosciuta a livello internazionale). Ogni stato, una
volta riconosciuto e ammesso nel sistema ONU, è uguale ad ogni altro
stato, al di là di fattori storici, culturali, politici, militari,
economici; e a prescindere dal sistema sostanzialmente non democratico
con cui si prendono decisioni vincolanti per tutti nell'ambito del Consiglio di
Sicurezza, organo supremo dell'ONU.
La stessa Carta, d'altra parte, riflettendo l'epoca della decolonizzazione,
sancisce ai limiti della contraddittorietà il diritto
all'autodeterminazione dei popoli (art. 1, beninteso secondo procedure
legittimate da precise norme internazionali) purché tale processo trovi
conclusione nella costituzione di un nuovo stato riconosciuto e sostenuto dalla
comunità mondiale, poiché la spinta omologatrice verso
l'unica forma politica legittimamente accettata fa premio persino sulla
dissoluzione di uno stato, sbaragliato (meglio, succeduto) da un
movimento di liberazione nazionale o da conflitti secessivi.
Infine, tra i motivi di rottura di tale ordine internazionale, la stessa Carta
prevede, nel cap. VII, oltre ad ammettere il ricorso all'autodifesa in caso di
aggressione esterna, le modalità di intervento delle Nazioni Unite - le
quali, non avendo realizzato il pur annunciato Comitato di Stato Maggiore con
il compito specifico di dirigere le operazioni strategiche delle forze armate
messe a disposizione delle Nazioni Unite, danno mandato a una coalizione di
stati o a una alleanza già definita, come la NATO ad esempio, con
comando militare delegato ma indirizzi politico statuito dalle delibere del
Consiglio di Sicurezza con voto unanime o quanto meno astensione benigna di
qualche potenza con diritto di veto (artt. 45, 48). L'art. 42 recita infatti
che solo un evento che infrange norme internazionali (del tipo della violazioni
di confini statali, come l'aggressione irachena del Kuwait nel 1990) o che
metta in pericolo la pace e la sicurezza mondiale, rende possibile un
intervento armato. Questo viene preso a modello, magari senza passaggio
formale del Consiglio di Sicurezza, dai sostenitori dell'ingerenza umanitaria
allorquando fanno coincidere rischio della sicurezza e della pace collettiva
con violazione massiccia e continuata dei diritti umani compiuti all'interno di
un territorio statuale, a rigor di norma fatto di esclusiva competenza delle
autorità locali, come se chi scatenasse violenza avesse per poliziotto e
per giudice... se stesso.
Si coniuga così il dovere etico con una opzione politica destabilizzante
non suffragata dalle condizioni giuridiche prefigurate cinquant'anni
addietro dagli estensori della Carta, la cui sensibilità era rivolta
verso quei grandi eventi della prima metà del Novecento - le guerre
d'aggressione e di potenza - e non ovviamente verso le mutate realtà
conflittuali odierne, in cui le violazioni sul piano dei diritti umani sono
deprecabili sempre e comunque, spesso in presenza di decomposizione dei governi
locali, ma non sempre e comunque mettono a repentaglio la pace e la
sicurezza collettiva mondiale. A meno che l'infrazione entro i confini risulti
comunque condannabile eticamente e politicamente e quindi passibile di
intervento umanitario, ma allora nell'ingerenza umanitaria andrebbe ricompresa
pure il non più legittimo uso della pena di morte come soluzione al
problema del mantenimento dell'ordine pubblico entro un territorio statuale.
Tuttavia, la sovranità statuale è culturalmente egemone,
giuridicamente tutelata, vietando esplicitamente l'ingerenza negli affari
interni se non dietro esplicito consenso, il che legittima operazioni di
peace-making ma non di peace-enforcing. Oggi ciò stride
però con la coscienza della sovranazionalità della tutela e del
rispetto dei diritti umani (che sono anche politici, civili, sociali, anche se
non economici), per cui l'ingerenza umanitaria diviene senza dubbio un diritto
forzando il testo della Carta e del complesso di norme internazionali,
ma soprattutto un dovere da compiere nelle forme più differenziate:
cooperazione internazionale, solidarietà a distanza, gemellaggi tra enti
locali, pressioni economiche, forme di interposizione, sino all'intervento
umanitario armato vero e proprio.
Salvo Vaccaro
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