Da "Umanità Nova" n.27 del 10 settembre 2000
Dibattito
Rivoluzione e globalizzazione
L'articolo di Salvo Vaccaro "Rivoluzione nell'epoca della
globalizzazione" in UN n. 21 dell'11 giugno 2000 riprende tesi che Salvo ha
sostenuto in diversi scritti e discussioni fra compagni e che, a mio parere,
meritano di essere sottoposte ad una lettura critica.
Cercherò di segnalare alcuni aspetti dell'argomentazione di Salvo che
non mi convincono sperando di aver compreso correttamente quanto sostiene e di
non prestargli opinioni non sue.
Salvo Vaccaro pone, in primo luogo, l'accento sull'integrazione a livello
mondiale della produzione e del potere e sul fatto che non è pensabile e
praticabile una rottura rivoluzionaria a livello nazionale. Afferma, infatti,
fra l'altro:
"è pensabile una rivoluzione - come evento finale, non come divenire
processuale - in un solo paese nell'epoca della globalizzazione anche politica?
Per fare un esempio, è possibile pensare una rivoluzione in Italia senza
che i poteri forti di Francia e Germania, per dire, stiano a guardare
aspettando l'effetto domino...".
Ad una domanda del genere è possibile dare una sola risposta: non
è pensabile una rivoluzione sociale in un solo paese o in una sola area
del pianeta senza che i poteri forti, io direi il padronato e gli stati,
intervengano per schiacciarla.
Il fatto è che non è possibile pensare oggi un'ipotesi del genere
ma non era pensabile nemmeno un secolo o due addietro come ci dimostra tutta a
storia delle rivoluzioni del millennio che volge alla fine. Se, in altri
termini, definiamo la rivoluzione sociale come l'espropriazione degli
espropriatori non si vede come sia possibile anche solo ipotizzare che il
capitale mondiale possa tollerare di vedersi sottrarre una quota del suo
dominio e, soprattutto, di vedere espandersi il processo rivoluzionario.
Se la situazione attuale è diversa dal passato lo è solo per il
grado di integrazione dell'economia e del potere e non per altro.
Per fare un esempio classico, la rivoluzione russa del 1917 ha potuto
svilupparsi solo per un assieme di ragioni affatto particolari come la
situazione di guerra e l'interesse dell'imperialismo tedesco di indebolire la
Russia zarista, le tensioni sociali che attraversavano l'Europa nel biennio
rosso e che impedivano un'offensiva in grande stile contro la Russia
rivoluzionaria, i caratteri particolari dell'impero russo per territorio e
struttura sociale. D'altro canto, il potere bolscevico ha, contemporaneamente,
schiacciato le tendenze radicali degli operai e contadini russi e trovato un
compromesso con il capitalismo occidentale e solo a queste condizioni ha potuto
sopravvivere.
Per farne un altro, che ci è ancora più caro, la rivoluzione
spagnola ha dovuto fare i conti con il massiccio sostegno tedesco ed italiano
ai franchisti, con l'ostilità larvata delle democrazie occidentali, con
l'azione normalizzatrice, per usare un eufemismo, dell'Unione Sovietica.
Considerazioni analoghe si possono fare per tutte le altre situazioni
rivoluzionarie che conosciamo dalla Cina all'Ungheria ecc... In realtà,
le rivoluzioni vincenti del passato sono state o rivoluzioni anticoloniali che
si appoggiavano ad uno dei due blocchi, di norma quello sovietico, o
rivoluzioni contro la devastante modernizzazione di tipo occidentale su base
religiosa, etnica ecc...
In estrema sintesi, quella che Salvo chiama la rivoluzione come evento finale
non può che darsi su base planetaria e non può convivere
pacificamente con "poteri forti" di tipo capitalistico e statale né
all'interno né all'esterno del territorio liberato dalla rivoluzione
stessa. Questo fatto è, però, evidente almeno dal 1800 e non
è una novità.
La presa d'atto di questa situazione e, soprattutto, la valutazione delle
esperienze passate può portarci alla conclusione che la rivoluzione
sociale non è possibile o è una possibilità talmente
remota da non meritare di assumerla come un programma politico. In questo caso,
però, sarebbe opportuno dichiarare l'abbandono della prospettiva
rivoluzionaria e proporre un altro programma politico di carattere diverso.
Salvo Vaccaro, d'altro canto, parla della rivoluzione come processo. Suppongo
che, con questa definizione, si riferisca a quell'assieme di pratiche sociali
che, senza porre all'ordine del giorno l'espropriazione, assumono nell'oggi
significativi caratteri antisistemici.
Effettivamente, se pensiamo alla rivoluzione sociale non come all'"assalto al
cielo" che trasformerà l'ordine del mondo da un giorno all'altro ma come
ad un processo storico nel corso del quale le classi subalterne attraverso
lotte immediate di carattere più o meno radicale costruiscono una
propria autonoma forza l'attenzione va posta su questo stesso processo, sulla
sua ricchezza e sulle sue contraddizioni.
Proprio perché l'evento rivoluzione va liberato da ogni implicazione
religiosa e metafisica e non è pensabile come una mutazione genetica
della specie umana è proprio nelle contraddizioni che attraversano la
società capitalistica e statale che ne vanno individuate la genesi e le
determinazioni. In fondo, quando i nostri compagni del XIX secolo affermavano
che l'emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi o
non sarà affermavano che solo l'azione degli uomini concreti che
vogliono spezzare l'oppressione può determinare un processo
rivoluzionario e che l'emancipazione non può esserci data né da
un potere buono né da una legge storica oggettiva.
D'altro canto, l'attuale ordine del mondo può tollerare molte pratiche
conflittuali e molti comportamenti eterodossi che, anzi, entro certi limiti ne
possono favorire lo sviluppo ma non può certo accettare l'espropriazione
della ricchezza e del potere.
In altri termini, la scommessa rivoluzionaria pone l'accento sul fatto che
quest'ordine del mondo è inaccettabile e che, in forme che non possiamo
prevedere compiutamente, il conflitto fisiologico fra dominati e dominanti
tende ad uno scontro, o a molteplici scontri, radicale per il quale lavoriamo e
rispetto al quale impegniamo la nostra vita e la nostra militanza. Chi scrive
è profondamente convinto che quanto più una rivoluzione sociale
sarà nella maturità dei tempi tanto meno saranno necessarie
violenze e forzature ma è altrettanto convinto che violenze e forzature
non sono da escludersi, anzi, proprio perché le classi dominanti non
accetteranno di essere spossessate del loro potere e della loro ricchezza
né totalmente né parzialmente. Su quest'ordine di questioni,
insomma, non mi pare accettabile alcuna ambiguità.
Salvo Vaccaro, a sostegno della sua tesi, pone l'accento sul fatto che noi, in
quanto compagni occidentali, siamo partecipi dei relativi privilegi che
caratterizzano le popolazioni delle democrazie industriali e che, di
conseguenza, in una prospettiva planetaria faremmo parte della classe
privilegiata.
Non si tratta, per la verità, di una tesi nuova. Da alcuni decenni
almeno filoni della sinistra di derivazione francofortese sostengono tesi
analoghe, settori della sinistra terzomondista vedono nelle masse oppresse
delle periferie del modo di produzione capitalistico l'unica forza
potenzialmente rivoluzionaria rispetto alla quale noi opereremmo come quinte
colonne nel ventre della bestia capitalistica e già dal 1800 si è
iniziato a ragionare sulla nascita di un'aristocrazia operaia nei paesi
più ricchi.
Non ho, in questa sede, lo spazio per criticare compiutamente questa tesi.
Vorrei solo far notare che se l'economia capitalistica vive un processo di
globalizzazione, per usare quest'orrido neologismo, ne consegue che la
concorrenza fra i salariati delle metropoli del capitale e quelli delle
periferie è sempre più forte con l'effetto di portare ad una
graduale unificazione delle condizioni di vita e di lavoro. Basta considerare
il fatto che masse crescenti di proletari industriali sono oggi collocate in
India, in Cina, in Corea ecc. e che le loro lotte contro uno sfruttamento
spaventoso sono oggi importanti, dal punto di vista della lotta di classe
"globale", quanto e più di quelle dei lavoratori delle vecchie metropoli
del capitale. La divisione fra Nord e Sud del mondo che Salvo ci propone
andrebbe sostituita con quella centro-periferia con un demoltiplicarsi dei
centri e delle periferie. Quote crescenti dei salariati occidentali vivono
condizioni di sfruttamento analoghe a quelle dei paesi "arretrati" e
altrettanto vale per i salariati del sud del mondo.
D'altro canto, che i proletari non vivano una condizione di immediata
omogeneità non è una novità. Per fare un solo esempio,
nella provincia di Milano nel 1900 la differenza salariale fra un bracciante
agricolo ed un tipografo andava da uno a sedici ed era più probabile che
fosse un tipografo, dotato di una conoscenza del mestiere notevole e di
strumenti culturali significativi fosse un militante politico, magari
anarchico, e sindacale combattivo di quanto lo fosse un bracciante agricolo.
Insomma, ancora una volta, le contraddizioni che Salvo individua non sono
infondate ma andrebbero lette, almeno secondo me, con strumenti diversi dal
senso di colpa per i nostri "privilegi" e dalla ricerca di improbabili
relazioni su base etica e culturale con gruppi di proletari delle periferie.
Solo il coordinarsi delle lotte su base internazionale potrà determinare
l'affermarsi di un punto di vista adeguato agli attuali caratteri della
questione sociale.
Infine, ed è la parte più simpatica del testo di Salvo, egli ci
ricorda che le popolazioni dell'occidente stanno invecchiando e critica:
"...un mito insurrezionalista che divorzia dai soggetti insorgenti, i quali non
hanno da perdere solo le catene, già oggi, ma domani addirittura le
dentiere!".
Fermo restando che le insurrezioni sono più adatte a giovanotti ed a
giovanotte che a pensionati, credo che dobbiamo lasciare (lasciarci) una
speranza anche ai vecchietti che potranno garantire la seconda o la terza fila
fra gli insorgenti e soccorrere con la loro saggezza la giovane guardia
proletaria a cui andrà il piacere della prima fila.
Cosimo Scarinzi
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