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Da "Umanità Nova" n.28 del 17 settembre 2000

Euro e petrolio
La lunga estate calda

La settimana appena trascorsa è stata caratterizzata dalla doppia emergenza di due fenomeni strettamente intrecciati: il crollo del valore dell'euro sul mercato delle valute e l'impennata dei prezzi del petrolio sul mercato delle materie prime. Entrambi i fenomeni sono stati spinti all'esasperazione dalla presenza di forti correnti speculative, che utilizzano i derivati sulle divise e sulle commodities con un effetto leva per amplificare i segnali dell'economia reale e trarne profitto nel brevissimo periodo. Tuttavia il calo dell'euro e il rincaro del greggio hanno l'effetto combinato di minare seriamente l'equilibrio sociale ed economico delle nazioni Uem, come dimostra la forte ondata di proteste degli autotrasportatori (in Francia, Spagna e Italia soprattutto, ma non solo), i segnali di ripresa dell'inflazione e il peggioramento delle ragioni di scambio con l'estero nei primi sei mesi del 2000. Sembra dunque opportuno un ragionamento sulle motivazioni reali di questo "settembre nero".

Al momento della sua nascita l'euro valeva circa 1,18 dollari, mentre adesso ne vale meno di 0,87 (una perdita di circa il 35% in meno di due anni). Ragionando in lire, il dollaro è passato da 1640 a 2230 lire. Il calo dell'euro sembra inarrestabile e gli analisti "tecnici" si spingono fino a prevedere un rapporto di 0,80 tra euro e dollaro (una quotazione corrispondente a 2420 lire per il dollaro), mentre anche i più ottimisti tra gli analisti "fondamentali" prevedono il ritorno di quotazioni più equilibrate non prima di 2/3 anni. Cosa c'è dietro questa costante caduta di credibilità dell'euro sui mercati mondiali?

La risposta sta nelle cose che l'Uem è riuscita a fare in questi primi due anni di vita e ancora di più in quello che NON è riuscita a fare. La leadership dell'Uem ha pienamente fallito il suo scopo di diventare un soggetto autonomo sul piano politico, militare ed economico, coesa al suo interno e univoca verso l'esterno. Gli interessi diversificati presenti nelle istituzioni di comando non hanno realizzato alcuna sintesi unitaria e la politica che ne è derivata è stata la sommatoria casuale di prese di posizione individuali, valide momento per momento, senza alcuna direzione strategica. Le istituzioni comunitarie non hanno fatto altro che subire le esigenze egemoniche del sistema Usa in tutte le più importanti questioni, dalla guerra alla Serbia ai negoziati commerciali in ambito WTO. L'unico risultato efficace risulta finora la creazione di un'area valutaria omogenea, peraltro molto debole a livello di credibilità internazionale. Nel confronto con dollaro e yen, per ora l'euro soccombe: delle tre aree valutarie a livello mondiale si rivela la più problematica, persino dopo che il mercato giapponese è stato abbandonato dalle forti correnti di spostamento di capitali che l'avevano investito nel corso del 1999. L'euro non è riuscito a sostituire il marco tedesco nelle sue funzioni di riserva valutaria e la Bce non ha la stessa teutonica autorevolezza che aveva la Bundesbank, per non parlare della Federal Reserve e del suo guru Alan Greenspan. Non stupisce che il 63% dei tedeschi rimpianga il buon vecchio marco. Del resto il 28 settembre la Danimarca sarà chiamata ad un nuovo referendum sull'ingresso nell'area euro: è facile prevedere che un'eventuale vittoria degli "euroscettici" rilancerebbe la speculazione contro l'integrazione monetaria e metterebbe ulteriormente in crisi la tenuta dell'euro sui mercati. L'allarme è tale per cui molti operatori chiedono la testa di Wim Duisemberg, il banchiere olandese piuttosto pasticcione che è stato scelto per presiedere la Bce nei primi 4 anni di vita come onorevole comptra tedeschi e francesi. La sua scelta di alzare i tassi del solo 0,25% il 30 agosto scorso è una delle cause del crollo settembrino, ma la fuga dei capitali verso l'area del dollaro ha certo motivazioni economiche ben fondate, perlomeno nel breve periodo. I tassi americani ripagano il capitale di un bel 2% in più e tutto lascia pensare che fino alla conclusione del ciclo elettorale (primi di novembre) l'amministrazione Clinton ci tenga ad avere un dollaro forte, una borsa che sale ed un'economia che tira. Dopo, si vedrà: il ritorno dei capitali verso l'area euro può essere assai repentino ed aggiustare da solo le cose. Del resto, una parte del capitale europeo è ben contento di come stanno andando le cose. Le compagnie votate all'export stanno facendo affari d'oro: nei primi sei mesi del 2000 le esportazioni di area Uem ( gli 11 paesi Euro) sono salite del 21% e quelle di area Ue (l'Europa dei 15) addirittura del 23%. Nella bilancia commerciale globale, naturalmente, l'effetto export è più che compensato dal rincaro delle importazioni e in specifico del prezzo del petrolio (costo dell'import +31% per Ue e +28% per Uem), con l'effetto complessivo di un forte peggioramento delle ragioni di scambio. Ciò non toglie che restino intatte le prospettive di sviluppo delle economie europee (tassi di crescita previsti del 3% annuo), in base al ragionamento che la locomotiva tedesca, producendo soprattutto beni di investimento destinati all'esportazione su tutti i mercati mondiali e pesando per circa il 40% sul Pil europeo, sia in grado di esercitare quella domanda intracomunitaria necessaria a salvaguardare la tenuta di tutto il sistema Uem. Il solo pericolo che riaffiora in questa fase è il deterioramento del quadro inflazionistico: mentre il fronte salariale è inesorabilmente piatto per l'integrazione dei sindacati nel sistema di potere, è il prezzo del petrolio a fornire le preoccupazioni più urgenti.

Le proteste di Usa e Ue nei confronti dell'Opec vertono sull'accusa a questo cartello di produttori di comportarsi come tale. Un aumento della produzione avrebbe, secondo i detrattori, l'effetto di calmierare i prezzi. Non tutti sanno invece che la produzione dell'Opec è stata ad agosto ai suoi massimi storici, oltre i 25 milioni di barili al giorno (mbg), a cui vanno aggiunto anche i 2,5 mbg dell'Irak sotto embargo: la capacità produttiva è ormai satura al 100% nei paesi considerati "falchi", mentre persiste qualche sacca inutilizzata solo per Arabia Saudita ed Emirati. Peraltro l'aumento di produzione è pressochè automatico in virtù degli accordi informali presi ad aprile: un aumento di 500 mbg se per 20 giorni il prezzo del petrolio resta superiore ai 28 dollari al barile, condizione appunto che ha fatto scattare proprio oggi la decisione di alzare la produzione giornaliera, con l'arrotondamento generoso a 800 mbg. L'aumento della produzione non sembra comunque in grado di far scendere subito i prezzi, per la politica delle raffinerie di tenere le scorte a zero e per i complessi meccanismi che regolano il mercato del petrolio, una delle merci più "politiche" che esistano. E' noto che il prezzo di produzione si aggira sui 2 dollari al barile, che i costi di trasporto, raffinazione, lavorazione e distribuzione alla pompa finiscono per rendere ricchi i bilanci solo delle compagnie petrolifere (che infatti veleggiano ai massimi storici nelle quotazioni di borsa), e che il prezzo finale della benzina incorpora circa il 60-70% di incidenza fiscale.

Un prezzo finale così elevato finisce per penalizzare soltanto alcuni settori ben specifici del sistema economico: in particolare quei segmenti che consumano molto carburante, sono costretti a lavorare per il mercato interno, a fatturare in euro, e a scaricare solo in parte sui prezzi l'aumento dei costi per la forte concorrenza. Ad esempio le compagnie aeree nazionali e, per l'appunto, l'autotrasporto.

Credo sia interessante notare come il governo abbia dimostrato grande sensibilità verso le esigenze dei padroncini dei camion, precoccupati per la caduta dei loro margini di profitto, mentre non abbia preso alcun provvedimento per frenare i prezzi della benzina e del gasolio da riscaldamento, che rappresentano una forte erosione del potere d'acquisto e del salario reale. Del resto, perchè stupirsi? Non erano forse stati i più autorevoli rappresentanti della sinistra (allora ancora all'"opposizione") a proporre 20 anni fa la sterilizzazione dell'inflazione importata nel calcolo della scala mobile? Con il tempo, come si è visto, il problema è stato risolto alla radice: eliminando la scala mobile, il sindacato dei consigli e la necessità di parlarne. Amen...

Renato Strumia



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