Da "Umanità Nova" n.28 del 17 settembre 2000
Piazze d'Italia
L'ordine e il disordine del dominio
Negli ultimi mesi, in relazione alle varie movimentate manifestazioni che si
sono succedute in Italia, si è tornati ad utilizzare la tematica della
violenza e della non-violenza per marcare nuove divisioni ideologiche
all'interno dell'opposizione sociale; così, quando sembrava che
quest'ultima si fosse finalmente liberata dalla disarmante, e in larga parte
strumentale, "cultura della non-violenza" imposta dal movimento per la pace
degli anni '80, la questione si è riproposta, sancendo rotture,
stabilendo ruoli e riproponendo categorie quali "buoni", "cattivi" e persino
"cattivissimi", tutte funzionali a favorire la criminalizzazione di alcune
pratiche e la repressione di quelle componenti non disposte ad accettare il
cliché dei "disobbedienti civili".
In tale contesto, fatto di polemiche interne e reciproche accuse, oltre agli
immancabili riferimenti immaginari a Seattle e al Chiapas, non sono mancate le
più assortite citazioni storico-politiche, da Lenin al '77, dalla
"Fenomenologia dello spirito" ad A. Arendt, da "Fragole e sangue" a Sorel... Su
ognuna di queste ci sarebbe da scrivere a lungo, dato che tutte le parti in
causa possono pescarvi quello che vogliono, ma forse quella che ha sorpreso un
po' di più è stata quella, inaspettata, relativa al sindacalista
rivoluzionario Georges Sorel che, ciclicamente, viene ritirato fuori per essere
stato di volta in volta il "cattivo maestro" di Mussolini, degli attentatori
anarchici, di Autonomia Operaia, della lotta armata e di tutto quello che ha
che vedere con la violenza politica.
Invece, se si conosce anche minimamente, l'opera di Sorel appare chiaro che
egli non fu il teorico o l'apologo della violenza, ma tutt'al più un
profondo sociologo di questa, che criticava da un punto di vista radicalmente
antiautoritario, come attestano ad esempio queste sue parole scritte nel
1908:
"Coloro che si rivolgono al popolo con frasi rivoluzionarie sono tenuti a
sottoporsi a obblighi severi di sincerità; perché gli operai
accolgono quelle parole nell'esatto senso che la lingua ha loro dato non
abbandonandosi a interpretazioni simboliche (...) Non ho mai avuto per l'odio
creatore l'ammirazione che Jaurès gli tributa; non sento per i
ghigliottinatori la stessa indulgenza che egli prova; ho orrore per ogni misura
che colpisce il vinto sotto un travestimento giudiziario."
Tornando comunque al presente, dopo aver tentato di difendere il maltrattato
Sorel dalle ennesime mistificazioni del suo pensiero, più che sul
carattere più o meno violento di certi metodi di lotta sarebbe
necessario soffermarsi sull'uso che di questi fa il potere costituito per il
controllo e la gestione dei conflitti sociali.
In un sistema democratico infatti l'ordine pubblico non esclude a priori e in
modo totalitario ogni antagonismo ed ogni dissenso, ma mira soprattutto a
governarlo, a gestirlo politicamente e possibilmente ad usarlo per
consolidarsi.
Volendo citare Michel Foucault:
"La società di normalizzazione è una società in cui si
intersecano, secondo un'articolazione ortogonale, la norma della disciplina e
la norma della regolazione".
Per cui, per garantire il proprio ordine sociale, il dominio ha bisogno in
egual misura di sbirri e trasgressori, di dissidenti-poliziotti e
poliziotti-provocatori, di soggetti che accettano il suo Codice e di
"trasgressori" che rendano necessaria tale "regolazione" mediante quelle leggi
con cui è sancito il monopolio della violenza allo Stato; come ebbe a
scrivere Errico Malatesta:
"Governo significa diritto di fare la legge e d'imporla a tutti con la forza:
senza gendarmi non v'è governo."
È con questa consapevolezza che bisogna guardare oltre le apparenze di
certe situazioni di scontro.
Questo vale certo per le "forzature" spettacolari all'insegna della cosiddetta
"disobbedienza civile", con il solito fronteggiamento tra forze dell'ordine e
manifestanti protetti da scudi e caschi, ognuno con la propria parte assegnata
e con prestabilite regole da rispettare. Infatti, se con tale tattica si
vorrebbe rompere con l'abusata immagine del manifestante stile anni '70, per i
mass-media anche se non vengono usate armi improprie l'immagine da evocare
rimane puntualmente quella della guerriglia e dello scontro violento voluto
dagli "estremisti".
Inoltre tale logica, essendo prigioniera del meccanismo per cui l'unico modo
per risultare "visibili" è quello di suscitare una carica della polizia
per poter passare da vittime, finisce per essere largamente prevedibile e
riduce lo scopo primario dello scontro stesso all'apparire piuttosto che al
conseguimento di obiettivi concreti.
Ulteriori conseguenze di tale forma di contestazione sono già evidenti:
la tendenza a sviluppare "relazioni pericolose" coi funzionari e gli apparati
che gestiscono l'ordine pubblico e a non accettare (alla faccia del tanto
declamato pluralismo) pratiche diverse da quella canonica della disobbedienza
civile, peraltro realizzata e diretta in modo verticistico, con eterni gregari
ed eterni portavoce.
Dall'altra parte, atteggiamenti più "forti" quali presentarsi sulle
scene con tanto di passamontagna e spranga e prendere di mira, ad esempio, le
vetrate di una banca, vengono abilmente enfatizzati sul piano della
comunicazione mediata per annullare ogni significato sociale o rivoluzionario
all'azione stessa, ridotta a normale episodio teppistico o a problema
d'emarginazione urbana.
E neanche quella che, formalmente, può sembrare una pratica immune da
rischi di recupero e canalizzazione, perché talvolta per chi governa
può comunque essere un buon affare sacrificare anche decine di vetrate
di un suo palazzo di giustizia o l'incolumità di qualche suo guardiano
se questo è il prezzo da pagare per il controllo sociale.
Attualmente il potere costituito ha gioco facile ad affrontare ogni situazione
di crisi, integrando uso del manganello, autodisciplinamento degli oppositori,
informazione asservita: quelli che vogliono accreditarsi con un'immagine
diversa e più rassicurante vengono comunque inchiodati dentro
l'invariato copione delle "violenze degli autonomi", mentre coloro che non
vogliono recitare la parte dei "buoni" sono costretti a "differenziarsi"
attraverso comportamenti per cui rischiano di passare soltanto per degli
alienati; tale meccanismo, di conseguenza, costringe chi ha scelto di usare la
non-violenza come lasciapassare per il proprio ingresso nella "politica che
conta" ad ulteriori rappresentazioni e a dissociarsi in modo sempre più
categorico non solo dai "sovversivi" ma persino dalla propria storia, mentre
quanti vogliono sottrarsi a tale regia sono spinti verso una radicalizzazione
"estetica" del proprio antagonismo.
Questi, sintetizzando, sono i principali problemi che, sia nelle piazze
d'Italia che in quelle internazionali del movimento antiglobalizzazione, ci
troveremo ad affrontare nei prossimi mesi.
Sviluppare la rivoluzione sociale nella resistenza attiva al capitalismo e
nell'autorganizzazione delle lotte, convinti che, la soluzione sta ancora nella
capacità di riconoscere e sabotare sia l'ordine che il disordine del
dominio.
KAS.
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