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Da "Umanità Nova" n.28 del 17 settembre 2000
Occidentalizzazione del mondo
Politica di potenza e ingerenza umanitaria
Ma si tratta di una rottura dell'ordine internazionale che va nel senso
del progresso della tutela dei diritti umani, al di là del possesso
(meglio, del controllo) delle genti da parte dello stato sovrano nell'esercizio
del suo potere entro i confini nazionali, non più indifferente alle
critiche morali? e poi, ogni politica interna che violi i diritti umani
è passibile di intervento umanitario? e secondo quale gradazione di
ingerenza? e a quali condizioni e criteri?
Il divorzio tra etica e politica, inaugurato da Machiavelli e sancito dai Lumi
(nonostante Kant e il suo progetto di pace perpetua) rende poco credibili gli
stati come i soggetti del diritto/dovere di ingerenza umanitaria, anche se
hanno dalla loro il primato della violenza (fisica) legittima con cui attuare
l'intervento umanitario. Assumere infatti come orizzonte etico i diritti umani
per dissimulare il proprium delle politiche estere degli stati, ossia
politiche di potenza alla cui teorizzazione il realismo obbliga a ingaggiare un
impegno retorico teso al passaggio verso il cosmopolitismo, non cambia la
qualità delle cose. A meno che tale obiettivo di cosmopolitismo non
riveda da cima a fondo la sovranità come cardine dell'agire
politico non tanto sul piano della proiezione estera di ciascun attore
internazionale, quanto proprio sul piano di cittadinanza, ossia di
appropriazione statuale (per adesso nazionale) dei singoli individui ad esso
soggetto. Costituzionalizzare la catena normativa a livello planetario
giuridificando i diritti umani come diritti soggettivi, quindi mimando gli
ordinamenti interni, non è infatti una garanzia di reale rispetto da
parte dell'autorità legittima, la quale democraticamente ma
illiberalmente (come già accade nei paesi del sudest asiatico)
può imporre pene di morte, torture amministrative (il caso israeliano),
detenzioni illegali e altre violazioni tipiche delle costituzioni
materiali di stati di diritto.
D'altro lato, un dovere non militarizzato apre la via a forme più
partecipate di ingerenza non commisurabili sul medesimo piano perché
stato e quindi sovranità politica, il cui agire è indice di
sospetto cui necessità un alibi di disinteresse rispetto alla
politica di potenza (non solo politica, ma anche economica, commerciale,
culturale, ecc.), e movimenti sociali rispondono a obiettivi e criteri
differenti. È pertanto più plausibile immaginare un intervento
umanitario effettuato da "neo brigate" civili cui però
difettano drasticamente strumenti coercitivi sul medesimo piano di
contrapposizione con la violenza disgregativa dei diritti umani. A meno di non
rifiutare tale piano con forme di ingerenza culturali, interpositive, esemplari
(di massa) che leghino le mani agli operatori della violenza statuale o
infra-statuale, come si palesano nelle nuove forme di guerra in cui i
principali obiettivi sono appunto i civili.
C'è una ragione per l'emergenza di conflitti violenti che non tutelano
le modalità di fair play bellico date dalle Convenzioni Ginevra
del 1949 (nonché quella del 1948 sul genocidio ad esempio, o degli usi
di guerra con giusti mezzi, IV Convenzione dell'Aja del 1907, che consente
l'intervento umanitario e senza partigianismi da parte della Croce Rossa). In
un mondo globalizzato in senso piramidale, le elites politiche che avvertono le
proprie entità scavalcate e deprivate di forza e risorse dai nuovi
meccanismi di accumulazione finanziaria e di redistribuzione delle ricchezze
attraverso delocalizzazioni produttive, rincorrono un "posto al
desco" con qualunque mezzo a loro disposizione, lecito o illecito, equo
o crudele che sia, pur di raccogliere le briciole del pasto globale. E siccome
la leva umanitaria è una ottima scena su cui far convergere attenzioni
di ordine politico (fonte di legittimità delle nuove elites), di ordine
economico (anche gli aiuti umanitari danno risorse e più i diritti umani
sono violati, maggiori contributi sono intercettabili proprio grazie
all'ingerenza umanitaria sequestrata dalle elites locali, per non
parlare del business degli embarghi i cui effetti sono malefici per le
popolazioni, ma benefici per le elites al potere), nonché di ordine
morale (la capacità di far leggere confusamente un conflitto locale come
tassello di un puzzle superiore alle responsabilità immediate dei
criminali umanitari).
"La persistenza di vecchi mandati e la tendenza a interpretare queste
guerre in termini tradizionali sono state le ragioni principali per cui gli
interventi umanitari non solo hanno fallito nel prevenire i conflitti, ma di
fatto hanno anche aiutato a perpetuarli in vari modi, ad esempio attraverso la
fornitura di aiuti umanitari, che costituiscono una fonte di entrata per le
parti in lotta, o attraverso la legittimazione di criminali di guerra invitati
ai tavoli dei negoziati, o ancora attraverso il tentativo di trovare dei
compromessi politici basati su ipotesi di esclusione" (Kaldor, 19).
L'etica viene catturata dalla politica. Ciò non è una
novità. Marie-Dominique Perrot sostiene che l'aggettivazione
"umanitaria" riferita all'ingerenza costituisce una strategia di
eufemizzazione che in quanto tale pertiene all'ingerenza senza
qualificarla. Come se l'aggettivo "giusta" riferito a
"guerra" non riguardasse la guerra, dura e crudele comunque, ma
la giustizia! Nonostante l'abbellimento semantico, ciò che conta
è il sostantivo che mette a nudo, nel caso, un intervento politico
condotto con mezzi diversificati di pressione affinché si coarti la
volontà di un altro soggetto inducendolo ad assumere posizioni
compatibili, omogenee, funzionali alla volontà che detta le condizioni
dell'ingerenza. Se essa è "umanitaria" ciò attiene
alla strategia retorica di eufemizzazione, per l'appunto. "L'ingerenza
umanitaria è incapace di riconciliare gli elementi (ingerenza e
umanitaria) perché le due logiche alle quali si riferisce
simultaneamente non sono state elaborate simbolicamente. Né ingerenza
"pura", né umanitario "classico": la sostanza dell'astuzia consiste nel
far credere alla riconciliazione tra due entità nei fatti inesistente,
al limite vaga. (...) La sua missione è di far credere alla
compatibilità tra nome e aggettivo, alla loro intima complicità,
meglio, di proporre il frutto di una conversione: quella dell'ingerenza
convertita in "cura altrui"" (IUED, 60).
Ma l'intervento umanitario, dal lato questa volta degli ingerenti, non subisce
sorte diversa. Proprio quel meccanismo piramidale della globalizzazione obbliga
lo stato forte a inglobare quello più piccolo, non più attraverso
la classica politica di potenza coloniale e imperialista di conquista
dissipativa o di assoggettamento diretto (in quanto scarsa è la
possibilità di tradurre il fatto in legittimità morale agli occhi
degli istruiti del pianeta che regolano la circolazione degli eventi e
delle nozioni di riconoscimento morale e politico); più opportuno allora
adoperare forme di disgregazione e controllo di territori, genti, risorse
naturali, mercati produttivi e di consumo, forme sociali di legami comunitari
per snellire la piramide slanciata verso una sommità su cui dovrà
risultare vincente una sola formazione politica globale.
Dice Jean-Christophe Rufin che "l'azione umanitaria non è fuori
della politica, ma al di là, prolungandola. (...) L'aiuto umanitario
è la prosecuzione della politica con altri mezzi rispetto alla
guerra" (cit. Ryfman, 167). Ciò è visibile nella selezione
variabile che politicamente muove l'intervento umanitario, sia nella sua
versione militare, che in quella più propriamente civile, che si rivolge
solo se vale la pena da un punto di vista di relazioni strategiche tra attori.
Non è certo un cinico caso del destino baro, infatti, se i kurdi, i
karen birmani, i ceceni non sono degni di essere tutelati dai rispettivi
governi, forti o meno che siano, (quasi sempre forti) e che quindi vengano
soccorsi dalla comunità internazionale. "A livello
internazionale, è vano sperare di abolire la tentazione degli stati di
continuare a usare l'azione umanitaria, talvolta come alibi per la latitanza
della politica vera e propria, talvolta come uno degli strumenti tipici di
garanzia della loro sicurezza esterna, ossia la permanenza della loro influenza
nell'arena internazionale" (Ryfman, 167).
In tal caso, l'ingerenza umanitaria assume il volto umano - troppo umano - che
dissimula un interesse politico che si traveste da retorica umanitaria come
sfera di giustificazione di un agire militarizzato altrimenti impossibile da
sostenere lecitamente, dati i vincoli giuridici internazionali. "Una
politica estera informata da una universalistica spinta umanitaria verrebbe
sicuramente a definirsi come "espansione imperiale" (imperial
overstretch)" (Haas, 45). Indice di tale stile è la
militarizzazione dei diritti umani che espropria dalle mani dei più il
dovere di ingerenza che accomuna gli abitanti del pianeta nella tutela dei
diritti umani di tutti e di ciascuno indistintamente contro chi adopera la
violenza a prescindere se ne abbia il monopolio e pertanto la
legittimità (bloccando il ricorso a posteriori attraverso la
complicità del riconoscimento).
"La trasformazione di fondo concerne l'inserimento, nel dispositivo
umanitario, di un passaggio intermedio, sino ad ora giudiziosamente evitato,
rappresentato dal politico e dal militare. La dottrina dominante escludeva
l'interposizione di un qualsiasi attore tra l'universale umanità e
l'individuo singolare. Le pratiche recenti fanno ritornare in auge lo stato e
l'esercito, elogiando di colpo l'idea di ingerenza che era loro associata da
sempre. Notevole ribaltamento poiché significa che ciò che era
prima intrapreso sotto il segno del disinteresse potrebbe passare per
interessato. Giacché la pratica dell'ingerenza è ben lungi
dall'essere innocente" (Rist, 39).
Solo nuovi soggetti civili transnazionali (anazionali) possono provare a
soddisfare i requisiti per la correttezza di un intervento umanitario senza
effetto di mimesi della ratio politica, anzi avendo come controparte quei non
più legittimi governi e quelle non più auspicabilmente legittime
élite politiche che sono in fase prestatuale via uso della forza fisica,
al fine di colmare un vuoto di sovranità sovente creato apposta per
intenti strategici da parte di altre potenze sovrane. La sfida di un intervento
umanitario esclusivamente civile è di svuotare la sovranità
prevenendo controeffetti di risaturazione, destituendone di senso i pilastri
concettuali: controllo riuscito di territori (confini inclusi), genti e risorse
ivi contenuti.
Probabilmente, le organizzazioni (realmente) non governative in senso lato, sia
quelle dedite all'assistenza umanitaria - le quali tuttavia dipendono dalle
agenzie nazionali e internazionali mai neutre, sono politicamente privilegiate
in quanto co-partner da quelle eletti e mutuano la miopia e l'incalzare del
tempo tipici di ogni emergenza - sia quelle dedite alla cooperazione allo
sviluppo (una volta definito correttamente tale sostantivo progettuale),
potranno un giorno rappresentare il nerbo di un forte intervento preventivo,
assolutamente disinteressato e totalmente non militarizzato, grazie alle
relazioni già sviluppate con le popolazioni ed alla complessità
dell'approccio che coniuga su piani intrecciati e orizzontali temi e problemi
di ordine culturale, sociale, economico, politico. In tal senso, il paradigma
dei diritti umani crescerà con arricchimenti reciproci e non sarà
visto, a torto o a ragione, come il cuneo per una accelerazione verso una
ancora più compiuta occidentalizzazione del mondo.
Salvo Vaccaro
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