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Da "Umanità Nova" n.30 del 1 ottobre 2000
Dibattito: rivoluzione e globalizzazione
Quale internazionalismo?
Prosegue il dibattito innescato dall'articolo di Salvo Vaccaro "Rivoluzione e Globalizzazione" pubblicato sul numero 22 di UN del 12 giugno e poi proseguito sul numero 27 del 4 settembre con un intervento di Cosimo Scarinzi. In questo numero pubblichiamo la replica di Vaccaro e un ulteriore intervento di Scarinzi.
Una strategia globale
Le puntualizzazioni di Cosimo Scarinzi alle mie tesi su rivoluzione e
globalizzazione mi trovano sostanzialmente concorde nel merito, molto meno
nell'effetto complessivo delle sue argomentazioni.
Il richiamo all'impossibilità di concepire il "socialismo in un solo
paese" - che non è uno slogan, ma una pratica politica nella quale siamo
inconsapevolmente immersi, se guardiamo le nostre organizzazioni - è
correttamente datato. La storia ci dice che ribadirlo non costituisce
novità. Tutto qui? Io cercavo di stimolare l'attenzione sulla presa
d'atto di questa realtà che non mi sembra affatto scontata: ossia
l'internazionalizzazione dei movimenti è appena agli inizi (due secoli
non sono bastati, infatti, a guardare gli esiti), e non mi pare che le
organizzazioni nazionali, politiche e sociali, esistenti, compresa la nostra
oggi in Italia, si muovano di conseguenza. Basta osservare come la nostra
Federazione non si laceri le vesti per non sapere coagulare al proprio interno
una commissione che colga la dimensione internazionale, pardon mondiale, come
asse prioritario del proprio intervento e della propria elaborazione politica,
non tanto teorica, quanto di contatti (auspicabilmente non solo virtuali),
attrezzandosi di coerenza.
Temo che voler tirare la coperta già corta sul senso di
continuità storica delle nostre vicende odierne, quasi a dire che,
certo, la globalizzazione non è una novità, ci faccia continuare
in un tran tran che non giova a nessuno, meno che mai alla presenza, alla
strategia, al rafforzamento delle idee e delle pratiche libertarie nel mondo e
quindi in Italia. Come a dire, che bisogno c'è di un qualche sforzo
"innovativo", di cambiare qualcosa dentro il nostro stile di organizzarci
politicamente e socialmente, se la realtà non presenta una sostanziale
novità, anzi è una riproposizione continua di vecchi fenomeni
emersi già da oltre un secolo (come sostengono i teorici del raccordo
tra imperialismo fine ottocento e globalizzazione attuale)?
Anche per quanto riguarda la questione del "privilegio" di noi occidentali,
già affrontata in pubblico in un convegno livornese precongressuale (i
compagni presenti si ricorderanno), difficile non concordare con le
precisazioni di Cosimo. Anche se voglio sgombrare il campo da due potenziali
equivoci: nessuna intenzione di voler suscitare sensi di colpa, sia
perché il moralismo non rientra tra le mie corde di argomentazione, sia
perché non è possibile ritenere di addossarci una qualche
responsabilità morale per essere venuti al mondo, senza averlo scelto,
da questa parte piuttosto che da un'altra, giacché sarebbe come
addossare una qualche responsabilità morale, a chi è nato in
Sierra Leone, del destino ahimé tragico che oggi vivono le popolazioni
colà nate e viventi.
Il secondo si riferisce a un terzomondismo diffuso che vedrebbe una sorta di
privilegio centrale, questa volta rivoluzionario, non più dettato sulla
topologia classica del fronte interno di classe, bensì sulla topologia
geografica di intere popolazioni rispetto al fronte di classe planetario. Non
essendo marxista non sposo questa concezione dialettica che universalizza
condizioni segmentate, rovesciando lo spettro di lettura, estendendolo fuori
frontiera, ma ribadendo il modulo di ragionamento già dimostratosi
incapace di rendere conto di eventi e percorsi della storia politica della
terra.
Tuttavia la soluzione evocata da Cosimo mi lascia perplesso: lungi dal volere
allacciare relazioni etiche e culturali (il che non guasta, ma non è
strategicamente dirimente), io mi chiedo quale sia il ruolo del "privilegiato"
nel processo rivoluzionario mondiale. È notorio che tra le file dei
movimenti, c'è chi ha avuto Engels, chi Kropotkin e Cafiero, e via
dicendo. Ma i movimenti non si caratterizzavano per una scelta di campo
generosa e feconda da parte di alcuni individui, bensì sull'opzione
politica dettata da una condizione storico-materiale di intere fasce di
popolazione, se vogliamo purtroppo minoritarie rispetto all'intera popolazione.
Pur con contributi rilevanti (pensiamo a Kropotkin nel nostro caso), i nobili
aderenti alla causa libertaria svolgevano una funzione di "complemento"
rispetto alla radicalità di un movimento dentro un processo storico
(anche quando andavano contro la linearità di quello stesso processo
storico, come insegna Nico Berti).
Cosa significa tutto questo portato alla realtà di oggi, su scala
globale? Che noi del nord (io continuo a preferire questa distinzione
convenzionale che mi sembra più appropriata della bipolarità
centro/periferia, pur concordando con la demoltiplicazione sia del sud nel nord
che del nord nel sud) siamo i Kropotkin della situazione, e allora mi sembra
paradossale accettare che sarà su di noi che riposa la prospettiva del
cambiamento planetario, proprio come l'anarchismo storico e militante confidava
in altre masse che non in quelle aristocratiche prestate all'anarchismo.
Né mi sembra auspicabile il percorso evocato da Cosimo sul
riavvicinamento (verso l'alto? verso il basso, più verosimilmente?) tra
i sud del nord e i nord del sud in maniera da costituire un serbatoio mondiale
di proletariato più o meno omogeneo da cui muovere alla conquista della
rivoluzione globale. Mi convince poco proprio per via dell'esito di questa
strategia (in parte non predeterminata) nella sfera occidentale, con il
compromesso socialdemocratico seguito all'insuccesso storico del lasso di tempo
che dalla Comune arriva a Barcellona passando per gli Iww, il biennio rosso ed
i soviet precedenti alla degenerazione leniniana e poi alla definitiva
liquidazione staliniana. In altri termini, è opportuno delineare questo
medesimo percorso alle masse sociali coreane e argentine? Noi "privilegiati",
col senno del poi, quali lezioni traiamo, non per noi oggi, ma come modelli di
discussione da intrecciare con gli altri referenti mondiali (ammesso che li
cerchiamo e li vogliamo...), dalla secca alternativa tra affamamento
neoliberale e integrazione neosocialdemocratica? Saremo capaci di essere di
"complemento", oltre una semplice funzione di memoria storica incapace
però di elaborare modelli di pratiche sociali, politiche e culturali che
vadano al di là del sabotaggio interno al nord ricco del pianeta? E
già questo compito di minare dall'interno, quali progettualità
attiva nell'incrocio con la stragrande maggioranza della terra ridotta a
condizioni similfeudali?
Questi erano alcuni degli interrogativi che mi premevano portare all'attenzione
della discussione sulla globalizzazione, con prospettive di attivazione
politica immediata anche per le nostre organizzazioni. Come sempre, sono grato
alle obiezioni per avermi dato l'opportunità di ritornarvi su con
qualche grado di precisione in più, nell'intento non tanto nascosto che
altri apportino ulteriori elementi per definire una strategia di intervento
altrettanto globale che non potrà mai venire dagli sforzi isolati di una
qualche singolarità.
Salvo Vaccaro
Il proletariato tra nuove periferie e vecchie metropoli
La risposta di Salvo Vaccaro alle mie considerazioni critiche sulle posizioni
che ha sostenuto in diverse sedi rende opportune, da parte mie, alcune
puntualizzazioni che spero siano utili alla discussione.
In primo luogo, io non ritengo affatto che non vi sia nulla di nuovo sotto il
sole dal punto di vista dell'organizzazione produttiva, della struttura statale
e delle modalità del conflitto fra le classi.
Basta pensare a tre elementi dello scenario nel quale operiamo per rendersene
conto:
- l'espansione su base mondiale del modo di produzione capitalistico che un
secolo addietro era "privilegio" di un segmento centrale ma decisamente
limitato del pianeta;
- i salti di modello interni al modo di produzione capitalistico, salti che
possiamo leggere come vere e proprie rivoluzioni produttive e sociali anche se
non nel senso che ci è caro;
- il fatto che la società statale e mercantile incorpora gli elementi di
innovazione e modernizzazione che gli stessi movimenti antisistemici del
passato hanno posto all'ordine del giorno.
In sintesi, il capitalismo realmente esistente di oggi è, in un certo
senso, l'erede del conflitto sociale del passato e si pone innanzi alle classi
subalterne come una forza capace di adattamenti, automodificazioni, innovazioni
tali da permettergli di apparire come "rivoluzionario" a fronte della
resistenza delle classi subalterne stesse che appare sovente come
"conservatrice".
Nelle mie precedenti considerazioni, di conseguenza, io mi limitavo a porre
l'accento sul fatto che, in una prospettiva rivoluzionaria e libertaria, lo
scenario internazionale o, se si preferisce, mondiale è l'unico
possibile oggi come un secolo addietro ma non negavo, né nego, il fatto
evidente che questo scenario ha caratteri specifici assolutamente diversi
rispetto a quelli del passato.
Salvo pone l'accento su di un problema preciso e cioè sulla scarsa
capacità del movimento anarchico, in genere, e della FAI, in
particolare, di pensarsi e, di conseguenza, di agire a partire da una
dimensione internazionale. Non posso che condividere la sua considerazione che
mi sembra però più un'indicazione di metodo, che condivido, che
un'innovazione teorica. Si tratta, credo, di operare perché la FAI vada
oltre i suoi attuali limiti su questo terreno come su altri ricordando che la
FAI siamo noi e che non vi è alcun dio che ci salverà.
Tornando alle considerazioni più generali di Salvo, io non penso affatto
che le masse dei proletarizzati delle periferie e dei nuovi centri
dell'universo capitalistico ripercorreranno le strade del movimento operaio
dell'Europa occidentale e degli Stati Uniti non tanto perché una simile
dinamica non è desiderabile quanto perché non è
semplicemente possibile.
Penso, invece, ad una dialettica fra nuovi proletariati delle periferie e
tradizionale (ma è veramente tradizionale?) proletariato delle vecchie
metropoli del capitale, dialettica le cui caratteristiche vanno colte partendo
dalla consapevolezza dei nostri limiti teorici e pratici ma anche delle
prospettive interessanti che si pongono alla critica libertaria dell'esistente
a partire sia dall'esperienza dei limiti (ad essere buoni) della sinistra
statalista che, soprattutto, delle potenzialità emancipative che
l'attuale struttura sociale blocca, reprime, deforma.
Infine, non ritengo probabile il passaggio al campo rivoluzionario di settori
significativi delle classi dominanti senza escludere, ovviamente, qualche
simpatico "tradimento" ma continuo a non collocare nel campo dei privilegiati
la grande maggioranza della popolazione delle aree centrali del pianeta per le
ragioni che ho cercato, poveramente, di esporre nel mio testo precedente.
Cosimo Scarinzi
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