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Da "Umanità Nova" n.31 del 8 ottobre 2000

Centri sociali
L'autogestione non è un pranzo di gala

La storia dei centri sociali continua, una storia ancora intrecciata di sgomberi ed occupazioni, ma sarebbe assurdo negare che molte cose sono cambiate, anche se ci si limita a guardare quanto è avvenuto in questi ultimi anni.

Infatti, anche se per i media, le uniche differenze rilevanti sono quelle che servono a classificarli come "buoni" o "cattivi", in realtà sono avvenute gravi e profonde fratture politiche in quello che sino a qualche tempo si poteva considerare un movimento, certo molto articolato e differenziato, ma comunque sostanzialmente unitario; basti pensare che soltanto dieci anni fa per qualche tempo funzionò pure un unico coordinamento nazionale, dentro cui erano presenti le più diverse componenti: squatter, autonomi, anarchici, comunisti, punk.

Le prime divisioni e i primi contrasti avvennero sul problema della cosiddetta legalizzazione, ossia sulla possibilità di conquistare una qualche forma di riconoscimento politico da parte delle amministrazioni locali per i posti occupati; il lacerante dibattito di allora - si era ai primi anni Novanta - teneva presente anche il fatto che a livello europeo i vari apparati polizieschi dei governi, riuniti nella famosa Commisione TREVI, avevano deciso di applicare contro le occupazioni una strategia fondata proprio sul binomio legalizzazione-repressione.

A distanza di un decennio, bisogna dire che le preoccupazioni degli "illegalisti", anche se spesso troppo ideologizzate, erano tutt'altro che infondate, perché sicuramente il potere costituito ha applicato proprio quella strategia, usando sia il manganello e le ruspe, ma anche una politica più intelligente e attenta al "sociale", giungendo a finanziare progetti tendenti a trasformare dei "covi della sovversione" in cooperative sociali in grado di produrre cultura e servizi, limitando anche l'emarginazione urbana.

Questo ruolo è risultato così importante che recentemente è stato pure pubblicamente riconosciuto pure da sindaci di destra, come quelli di Milano e Bologna.

Il vero problema, all'interno del "movimento", è però stato quando su questo ruolo si è voluto, nel '97 con la cosiddetta Carta di Milano, avviare ufficialmente un processo di costruzione di un nuovo soggetto politico che da un lato voleva in qualche assumere il ruolo di "partito dei centri sociali" e, allo stesso tempo, rompere con l'antagonismo extraistituzionale che questi avevano espresso sino ad allora, quello stesso che per anni ci aveva fatto gridare nei cortei "Contro la mafia dei partiti: centri sociali autogestiti".

Ammainate quindi le loro rosse bandiere, i centri sociali che si richiamavano alla Carta di Milano innalzavano quella della "società civile" e, attraverso la moda delle Tute Bianche, nasceva il tentativo di differenziarsi anche visivamente da quanti non accettavano tale logica; così se nel '94 al duro corteo del 10 settembre '94, le tute bianche avevano rappresentato gli spettri del Leonkavallo sgomberato, dal '97 in poi le tute bianche hanno finito per essere il fantasma di un'idea radicale di autogestione.

La susseguente integrazione di quest'area all'interno del contesto politico ufficiale è ormai un dato di fatto; suoi esponenti e portavoce hanno regolarmente accesso ai media, hanno propri rappresentanti all'interno di alcune amministrazioni, usufruiscono di finanziamenti pubblici, interloquiscono affabilmente con ministri, sindacalisti, generali e vescovi.

In particolare, hanno stabilito buoni rapporti col centro-sinistra ed infatti è praticamente impossibile trovare nei seppur copiosi documenti prodotti dall'area dei centri sociali della Carta di Milano una qualche opposizione degna di questo nome agli ultimi governi, anche durante la guerra contro la Jugoslavia.

Da parte sua, il centrosinistra è stato ben contento di trovare all'interno di una società sempre più distante dalla politica dei partiti, la possibilità di intervenire seppur indirettamente nel sociale, secondo quelli che sono da sempre i progetti e i modelli delle socialdemocrazie più avanzate.

Ovviamente non sono tutte rose e fiori e, a causa dell'attuale crisi politica del centrosinistra, può succedere che un questore o un sindaco fascistoide decida di sgomberare un centro sociale "dialogante", ma comunque è un altro dato di fatto che poi vengono puntualmente trovate e contrattate delle soluzioni alternative, magari dopo un momento di protesta spettacolare.

In tale panorama, continua con notevoli difficoltà il percorso dei centri sociali, delle situazioni, degli squat che hanno scelto di continuare ad essere autonomi dalle istituzioni e a praticare l'autogestione fuori sia da logiche commerciali che "no profit", rifiutando l'inserimento nella politica socio-culturale delle amministrazioni locali; non è infatti un caso che negli ultimi mesi le operazioni repressive più devastanti hanno avuto come obiettivo centri occupati "fuori dal controllo" quali l'Askatasuna a Torino, Forte Guercio ad Alessandria, il C.P.O. Gramigna a Padova.

Il tutto in un clima elettorale all'insegna dell'ordine pubblico e con lo spiacevole condimento di una campagna di criminalizzazione portata avanti dagli organi d'informazione, impegnati a dimostrare i presunti collegamenti (Do you remember Geri?) tra "nuovo terrorismo", opposizione di classe, centri sociali.

Per questo, se è vero che ogni spazio sgomberato va considerato un attacco alle libertà sociali, è altrettanto vero che il metodo con cui si pratica e si difende l'auto-organizzazione è più importante dello spazio.

KAS.



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