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Da "Umanità Nova" n.32 del 15 ottobre 2000
Palestina
La libertà calpestata
Le notizie che giungono dalla Palestina denotano il clima rovente di anni e
anni, di decenni di nodi irrisolti, di conflitti esplosi e sempre esplosivi, di
errori e scelte politiche sulla pelle dei residenti arabi che originano sin
dalla scelta del 1948.
Tra la sollevazione di questi giorni e l'Intifada del 1987 le analogie appaiono
notevoli, prima fra tutte la schiacciante inferiorità dei palestinesi
sul piano militare rispetto alle forze armate israeliane, il che obbliga ancor
oggi a opporsi con pietre e fionde ai proiettili di gomma, ai tanks, ai fucili
veri, agli elicotteri che mitragliano dall'alto perforando i muri delle
case...
Le somiglianze, però, si fermano qui. Infatti il contesto politico
è profondamente trasformato dal 1987, anche se tutto appare immutato. E
invece allora l'Intifada fu guidata da Arafat e da Hamas, coinvolse soltanto i
palestinesi, e smosse la comunità internazionale, ossia i potenti del
pianeta, Stati Uniti in testa, e poi europei e sovietici, nel tentativo
contraddittorio di fare qualcosa: da lì nacquero i primi passi di una
strategia gattopardesca americana (che poi si denominò Tavolo di Madrid
dopo la guerra del Golfo), e da lì nacque una replica parzialmente
spiazzante culminata con gli Accordi di Oslo, voluti da Israele e da Arafat
subiti, anche se entrambi volevano accelerare i tempi di una pace graduale con
una relativa indipendenza dai voleri della superpotenza a stelle e strisce.
Oggi, invece, la rivolta è la forma di sopravvivenza di un Arafat
arrivato alla fine della sua lunga carriera politica, con quei sommovimenti
interni all'élite palestinese per accreditarsi fedele successore ed
erede del leader storico. L'apparente spontaneità dei moti di ribellione
dopo la provocazione di Sharon cela la longa manus dei servizi di sicurezza di
Arafat, che è consapevole come la politica debba mandare a morte sicura
qualche centinaio di giovani palestinesi per riposizionarsi, auspicabilmente
meglio, sul tavolo delle trattative.
Infatti il numero delle vittime, a quanto ci riferiscono i nostri contatti in
loco, sono ben al di sopra delle cifre dichiarate ufficialmente, e la
brutalità dell'esercito israeliano - ma quello palestinese non è
da meno, anche in direzione dei propri stessi concittadini - è superiore
al già tipico atteggiamento di un qualunque esercito di occupazione.
Il gioco orchestrato da Arafat e da qualche segmento del suo apparato in pole
position per raccoglierne l'eredità, sembra escludere Hamas, in crisi
dopo essere stata espulsa dalla Giordania, che non è ben vista dai
politici speculatori che hanno preso il potere da poco in Libano, e che quindi
sembra spiazzata dall'improvvisa radicalizzazione degli eventi.
In compenso, una novità di oggi è la ribellione degli arabi
israeliani contro il proprio governo, in zone non toccate dall'Intifada di
ieri. Questo sembra mettere il difficoltà Barak, che ha già perso
strada facendo pezzi di sostegno politico e parlamentare. Le grane da risolvere
sono enormi, e non tanto per la sacralità di Gerusalemme - esistono
piani dettagliati di divisione della città per vie e viuzze in base alla
religiosità dei luoghi, con una ipotesi di amministrazione
internazionale della città sotto egida delle Nazioni Unite - quanto per
la ritrosia dei coloni, foraggiati da tutti i governi israeliani di ogni colore
ad occupare sempre più territori arabi, ad accettare seraficamente di
sentirsi scaricati e rispostarsi altrove.
La mappa dell'apartheid della West Bank, infatti, non è casuale, ma
segue sul terreno il filo delle risorse necessarie alla vita in quei luoghi
più o meno desertici e strappati all'aridità della natura con la
tecnologia di cui dispongono gli israeliani - e di cui i palestinesi sono
invece drammaticamente privi: ossia le falde acquifere. La discontinuità
territoriale del futuro stato palestinese ne è un segno motivato anche
per ragioni militari, ma proiettato nel lungo periodo della creazione di uno
spazio economico comune, in cui i ricchi saranno gli israeliani ed i poveri i
palestinesi (ma anche i falascià ebrei, gli arabi cittadini di Israele o
i profughi ebrei tornati dalla Russia che non riescono a salire sul treno della
modernizzazione).
Sempre su quel ristretto territorio, dove andranno a risiedere i milioni di
profughi palestinesi che dalla Nakba del 1948 sono esuli (benestanti rispetto a
chi è rimasto a Gaza, ad esempio) in Giordania, in Egitto e altrove nel
mondo arabo? Quale carica di destabilizzazione politica apporteranno quando
sarà loro concesso anche un minimo diritto di ritorno alle loro terre di
origine, magari senza rivendicare beni, ma sicuramente portatori di idee e
comportamenti che mineranno il fragile e ultracorrotto regime palestinese?
Queste considerazioni, ispirate da conversazioni nel tempo con chi ha fatto
della Palestina, sulla scia di una militanza terzomondista degli anni '70, il
luogo di un impegno sociale e etico ormai disincantato, denotano ancora una
volta la lunga strada che i popoli devono ancora percorrere per garantirsi una
opportunità di autogoverno senza élite politica che, sull'onda di
un diritto all'autodeterminazione nazionalista, ha costruito le basi del
proprio privilegio. Ciò che ha segnato la parabola di un ebraismo
libertario e socialista di inizio secolo (anche con qualche venatura religiosa
e tradizionalista), oggi è già visibile in quel che resta del
mito di Arafat & compagni. Purtroppo, il cinismo di questa politica si
alimenta di vittime le cui aspirazioni alla libertà sono calpestate e
mortificate (in senso ahimè letterale) senza che il loro sacrificio
volontario ed il loro genuino entusiasmo - questo sì - per la lotta di
liberazione sappiano trasformarsi in una pratica liberatoria di ogni
élite dominante e di ogni propensione a farsi stato, ossia a instaurare
un ceto superiore abilitato e "legittimato" a incarcerare, a isolare, a
reprimere, ad assassinare, come in questi anni di trattative per la pace hanno
continuato a fare, in misura diversa, i governi della democratica Israele e
della dispotica Autorità nazionale palestinese.
Salvo Vaccaro
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