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Da "Umanità Nova" n.32 del 15 ottobre 2000

Operai da morire
Morti in fabbrica e fabbriche di morte

Sabato 16 settembre si è svolto a Genova il convegno OPERAIO DA MORIRE (morti in fabbrica e fabbriche di morte) organizzato da MEDICINA DEMOCRATICA.

Si è trattato di un'importante occasione per fare il punto sullo stato delle politiche di prevenzione degli incidenti e delle malattie da lavoro e, in generale, da produzione, sulla legislazione che regola la materia, sulle iniziative di parte operaia contro le fabbriche di morte.

Erano presenti più di cento lavoratori di decine di fabbriche e di aziende coinvolte da quest'ordine di problemi e si è avuto modo di raccogliere informazioni e scambiarsi valutazioni di grande interesse.

Cercherò di segnalare quelle che mi sembrano essere le questioni più importanti fra quelle sollevate rimandando agli atti del convegno per una copiosa massa di informazioni di carattere particolare che sono state raccolte.

Come era perfettamente prevedibile, ma è bene ribadirlo, le promesse che il governo di centro sinistra ha fatto, nel momento del suo insediamento, per quel che riguarda la prevenzione degli infortuni e delle malattie da lavoro sono state disattese e la mortalità e nocività da lavoro hanno continuato a crescere negli ultimi anni.

Un fattore importante di aggravarsi della situazione è stata la precarizzazione del lavoro, precarizzazione che, spostando i rapporti di forza a favore del padrone, rende sostanzialmente inefficace la legislazione a tutela del lavoratore. Infatti un operaio o un impiegato posti a rischio di licenziamento sono indotti a non utilizzare nemmeno la limitata legislazione attuale a propria tutela per il, ragionevole, timore di perdere il posto di lavoro.

A maggior ragione questa considerazione vale per l'universo del lavoro nero, degli immigrati, del lavoro autonomo eterodiretto che sfugge ad ogni rilevazione.

La legislazione stessa è resa inefficace da diversi meccanismi assolutamente non casuali:

- i costi della tutela legale e di quella medica sono eccessivi per i lavoratori;

- il fatto che le sanzioni contro le imprese sono inadeguate, quelle economiche non sono un deterrente a fronte dei risparmi che ottengono non investendo in sicurezza, quelle penali sono lievi e basta cambiare ogni tanto i dirigenti direttamente responsabili della nocività per rendere inefficace una pena che, consistendo in una condanna con la condizionale, può essere subita dal singolo dirigente, lautamente risarcito dall'azienda, senza alcun effetto reale;

- le risorse poste a disposizione delle amministrazioni che devono garantire la sicurezza sul lavoro sono inadeguate e il coordinamento fra queste amministrazioni spesso mancante o insufficiente;

- una serie di contratti aziendali e categoriali, accettati dai sindacati di stato e imposti con il ricatto della perdita di posti di lavoro se si applica rigorosamente la normativa attuale, concedono alle imprese un margine di manovra ancora maggiore rispetto a quello che la legge prevede;

- le grandi imprese responsabili del degrado dell'ambiente di lavoro e del territorio investono importanti risorse per influenzare il ceto politico, i media, la scuola, le amministrazioni, la comunità scientifica.

Siamo di fronte, evidentemente, ad una situazione difficile anche per la caduta dell'attenzione alla questione sociale. La sinistra istituzionale, ma anche settori di quella che si vuole antagonista e persino libertaria, ha rimosso l'analisi concreta della condizione lavorativa, la definizione di precise proposte e di un autonomo punto di vista sulla produzione e sembra convinta che le donne e gli uomini che vivono la condizione di salariato siano scomparsi o si siano soggetti di una vaga "produzione immateriale.

Gli stessi dati empirici, la morte, la malattia, la mutilazione di migliaia di lavoratori rimettono la questione sui piedi. Il lavoro coinvolge i corpi e le menti, li piega al dispotismo aziendale, fa di decine di milioni di persone forza lavoro, merce da utilizzare secondo i criteri dell'economia. La lotta contro la nocività, di conseguenza, è, in primo luogo, lotta per affermare un autonomo punto di vista di classe sul lavoro.

Gli assi di intervento individuati sono precisi:

- Porre al centro il sapere non specialistico di chi vive la condizione salariata. I lavoratori e le lavoratrici non sono "tecnici" della nocività ma possiedono, collettivamente, una conoscenza del ciclo produttivo, delle sue caratteristiche, dei suoi effetti. Questo sapere collettivo è il punto di partenza di un'azione efficace contro la malattia, la mutilazione, la morte.

- Questo sapere va coordinato e diffuso. La relazione diretta fra i collettivi che si pongono su questo terreno è essenziale. Vanno prodotte precise campagne di informazione sul lavoro così come è realmente.

- Settori di tecnici della malattia e del diritto sono disponibili ad impegnarsi su questo terreno e da anni lo fanno con impegno generoso. Medici, avvocati, ricercatori, docenti possono essere, interlocutori privilegiati per una campagna sulla sicurezza del lavoro. La comunità scientifica, per fortuna, non è compatta. Dobbiamo essere capaci di operare per spostarne settori consistenti nella direzione della difesa degli interessi del lavoro salariato.

- Le trasformazioni dell'organizzazione del lavoro, il decentramento produttivo, la precarizzazione, rendono necessaria una trasformazione delle modalità stesse dell'inchiesta e dell'intervento. All'ombra della grande fabbrica è cresciuto un universo produttivo chge dobbiamo conoscere e, per conoscerlo, è necessaria l'azione quotidiana e la sperimentazione di nuove modalità di intervento.

Un impegno importante al quale il convegno di Genova ha dato un prezioso contributo.

Cosimo Scarinzi



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