Da "Umanità Nova" n.33 del 22 ottobre 2000
Palestina
Il silenzio della ragione
Là sulla pietra che attendeva che Abramo sgozzasse suo figlio, là
dove sorge la moschea di Al-Aksa, nessun dio pietoso ferma l'ennesimo bagno di
sangue. La tragedia che sta attanagliando la Palestina lascia sgomenti ed
attoniti noi occidentali che, pur costantemente smentiti, amiamo cullare
l'illusione d'essere immuni dalla marea montante dell'odio perché capaci
di arginarne la prorompente capacità distruttiva. Sapienti analisti
delle alchimie della politica ci dicono le "ragioni" della provocazione di
Sharon, desideroso di fermare un processo di pace esile come una pianticella di
grano nel deserto del Negev e quelle di Arafat, altrettanto desideroso di
sbloccare l'empasse infinita in cui pareva congelato il progetto di costruzione
di uno stato palestinese.
Ma noi abbiamo negli occhi le immagini dei corpi martoriati dei bambini colpiti
dalle gelide macchine da guerra israeliane, abbiamo negli occhi il volto del
palestinese che mostra orgoglioso le mani insanguinate, le mani che hanno
sgozzato un riservista israeliano. E sappiamo, che non vi sono "ragioni" la
dove la ragione tace.
La possibilità della convivenza, dipende dalla con-divisione di uno
spazio mentale che nessun confine statuale può istituire, poiché
il con-dividere non può essere una spartizione decisa con il sangue e le
armi, una spartizione dagli esiti scontati, dato l'enorme divario delle forze
in campo.
Un giovane palestinese ha dichiarato con rabbia ed orgoglio: "ho 22 anni e sono
pronto a morire". V'è in ciò un'aspirazione di libertà ma
pure, cupamente, la disperata determinazione di chi sa di non avere un futuro.
In nessun luogo come questa terra arida e bella stretta tra le rive del
Giordano ed il Mediterraneo, tra la Galilea e il mar Rosso appare nella sua
cruda evidenza la follia del volersi far stato, poco importa "quale" stato,
quello inventato dalle Nazioni Unite nel '48 per i reduci della più
spaventosa tragedia del `900 o quello cui aspirano i palestinesi, esuli in casa
propria da oltre cinquant'anni.
E l'Europa? L'Europa in cui sinistra si allunga l'ombra sempre più larga
dei localismi, del razzismo più sfacciato, delle destre fasciste e
naziste, si stringe nei propri confini, distante e silenziosa.
Ma quant'è lungo il cammino tra Auschwitz e Gaza, tra Dachau e
Ramallah?
La pianta dell'odio è come la rosa del deserto, un grumo di sterpi
secchi che però bastano poche gocce d'acqua a far rinascere.
Un giorno non lontano quando la memoria sarà del tutto sopita, quando il
sogno tenace di un'umanità internazionale e libera dallo sfruttamento si
sarà infranto contro l'Europa dei capitali potremmo scoprire che gli
orrori nazionalisti e totalitari del '900 sono tutt'altro che rinsecchiti, ma
allora sarà troppo tardi.
Non possiamo restare a guardare da lontano la tragedia che si sta consumando in
Palestina. Non possiamo, come fanno le anime pie dell'esangue sinistra
nostrana, invocare una diplomazia internazionale che meno di un anno e mezzo fa
ha per "ragioni umanitarie" bombardato i civili del Kosovo e della Serbia. Una
diplomazia che in nome dell'umanità ha bombardato e ucciso non meno
dell'esercito israeliano in questi giorni. Dobbiamo scendere in campo, pur
nella consapevolezza degli infiniti ostacoli che ci attendono.
Dobbiamo chiedere con forza la fine della violenta repressione contro la
ribellione palestinese. Ma, con altrettanta forza dobbiamo avere il coraggio e
la determinazione per chiedere quello che appare tanto più impossibile
quanto più ragionevole: l'abolizione di tutti i confini, di tutti gli
stati, di tutti gli eserciti. L'unica diplomazia possibile è quella che
si costruisce dal basso attraverso i rapporti diretti con chi, tra il Giordano
ed il mar Rosso, non crede negli stati ma nell'autodeterminazione di tutti gli
sfruttati.
Ne va della nostra sopravvivenza.
Maria Matteo
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