|
Da "Umanità Nova" n.34 del 29 ottobre 2000
Palestina
La rivolta continua
L'implacabile legge dei media è strana e colpisce
ancora: dopo il vertice semi-fallito di Sharm El Sheik in Egitto, a cui hanno
preso parte Clinton, Mubarak, Barak e Arafat, la nuova Intifada palestinese
è uscita dal campo di osservazione, come se non continuassero i morti e
i feriti, come se la tregua reggesse sul serio. Invece, da fonti locali,
apprendiamo che nella buona sostanza i blocchi delle città palestinesi
continuano tuttora, che gli scontri proseguono, che gli accordi hanno
ulteriormente indebolito Arafat agli occhi del suo popolo, che nonostante
ciò Hamas non ha vita facile perché poco radicata nella
società palestinese (e può incidere solo colpendo obiettivi
israeliani).
Pur essendo dietro alla rivolta, Al Fatah ha ormai la fama di un covo di
dirigenti corrotti e famelici, sempre più distaccato dalla miseria in
cui vive la popolazione, incapace di esprimere una strategia politica, quale ad
esempio quella di contrapporre al ventilato governo israeliano di unità
nazionale, un analogo governo con Hamas e altre formazioni politiche. Arafat
sembra sempre più solo e umiliato, malandato e abbandonato dalla quasi
totalità del mondo arabo, che paradossalmente mette al primo punto
dell'ordine del giorno del vertice del 21 ottobre la situazione del mercato
comune arabo-israeliano!
C'è da chiedersi a cosa siano serviti oltre un centinaio di morti e
più di tremila feriti, in un'area in cui le cure sanitarie sono
appannaggio dello stato israeliano. Se consideriamo lo stretto legame tra Usa e
Israele, nonché con l'Egitto, se consideriamo come Siria e Giordania
siano alle prese con delicate situazioni di transizione di nuovi regnanti, se
consideriamo il Libano alle prese con la ricostruzione (il più
importante palazzinaro è stato eletto premier appena il mese scorso, per
rilanciare la ricostruzione), se consideriamo come gli esiliati palestinesi
degli scorsi decenni si siano ormai inseriti nei paesi ospitanti, e in maniera
sicuramente benestante rispetto ad un loro invocato rientro in "patria" (a
parte quei profughi dimenticati da tutti in campi libanesi e siriani), ebbene
sembrerebbe dedursi una catastrofe politica totale per quello che dovrebbe
pomposamente essere lo stato palestinese.
La causa palestinese corre il rischio di estinguersi con la sottomissione
definitiva e implicitamente sostenuta da tutti gli attori dell'area
mediorientale, ansiosi di agganciarsi in qualche modo alla globalizzazione? La
rivolta odierna ne segnerebbe il sintomo percepito dall'élite
palestinese o segnerebbe più drammaticamente l'epitaffio sulla tomba di
Arafat e del suo popolo, una volta che la dissoluzione del bipolarismo rende
ancor più debole uno schieramento e, al suo interno, una parte che non
si rassegna ad identificarsi con il lato occidentale (pur avendone mutuato
pessimi caratteri di governo) o con il lato fondamentalista, ultimo effetto
della divisione bipolare del pianeta?
Se infatti la questione arabo-israeliana si riduce ormai al business, la
questione palestinese sembra essere nelle mani dei soli contendenti,
sproporzionatamente diseguali in tutto e per tutto. La forza degli israeliani
è schiacciante, e attualmente non subisce incrinature né dalla
sinistra movimentista (pacifisti, verdi, non-violenti), spesso e volentieri
succube del partito laburista e comunque impegnata più a solidarizzare e
sostenere i palestinesi che non a fungere da "quinta colonna" interna alla
propria società; né dal milione e passa di arabi cittadini
israeliani di serie B, i quali tuttavia solo ora sembrano ragionare in termini
di affinità politica e culturale. Mai presi realmente in considerazione
dalla politica palestinese, perché figli della Nakba del 1948, gli arabi
israeliani hanno chiesto lo status di minoranza etnica, da tutelare
espressamente. Con i brutti precedenti dell'area balcanica, cresce
ragionevolmente il timore che una simile richiesta possa aprire la strada ad
una guerra civile - lo scontro fisico e non soltanto verbale con i coloni, che
già oggi impongono un coprifuoco serale de facto agli abitanti arabi
delle zone in cui sono presenti - sulla quale molti potrebbero fare più
di un pensiero per far saltare in aria tutto quanto.
Già oggi sarà estremamente difficile far risalire il barometro
della fiducia reciproca tra popoli, figuriamoci se si sancisce una divisione de
jure senza che a ciò si accompagni una diversa organizzazione politica
sul piano territoriale: lo spettro del Kosovo incombe minaccioso.
D'altronde, gli accordi di Oslo sembrano accantonati, e quindi si preannunciano
anni di conflittualità accesa in attesa del ricambio della leadership
palestinese (in pole position sembra esserci, guarda caso, il capo dei servizi
di sicurezza) e una più marcata distinzione dei ruoli di governo e di
opposizione tra i due principali partiti alla Knesset, laburisti e Likud, che
sostanzialmente si dividono l'elettorato rimanendo pertanto ostaggi di fazioni
di minoranza cruciale, altrettanto fondamentalista di quella araba (gli ebrei
ortodossi dello Shas, o frazioni di società costituita a imprenditoria
politica dei coloni o di recenti ondate di immigrati).
Con il blocco statunitense in vista delle elezioni presidenziali ed il cambio
al vertice (tra novembre e gennaio prossimi) e con il silenzio europeo e russo,
in tutt'altre faccende affaccendati, l'impressione è che il cinismo
politico richiederà altre vite immolate sulla via accidentata di
illusioni di autodeterminazione che nessuno realmente intende consentire. Si
rinnova così l'eterno paradosso di un conflitto acuto che, incanalato
verso la costruzione di una entità statuale accanto alle altre, produce
più problemi di quanto non fosse lecito aspettarsi dai sostenitori di
questa politica, mentre d'altronde resta tutta da sperimentare una forma di
organizzazione sociale non fondata sull'identità statuale e nazionale
che scinda verticalmente in due una comunità tra dominanti e dominati. E
il calcio del fucile fa sempre male, chiunque sia a fracassartelo sopra.
Salvo Vaccaro
| |