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Da "Umanità Nova" n.34 del 29 ottobre 2000
Flussi migratori
La lampada di Diogene
La manifestazione che la Lega ha organizzato a Lodi per impedire la costruzione
di una moschea mussulmana è stata pericolosa per due motivi:
perché si è posta mediaticamente come momento organizzativo di
una cultura xenofoba, tendenzialmente aggressiva, rimotivatizzante delle paure
che segnano parte del vissuto quotidiano di ampi settori della società;
perché ha offerto sul piatto della bilancia del centrosinistra la
possibilità di ridisegnarsi una verginità in tema di politiche
dei flussi migratori perduta da tempo e segnata da un sangue ben differente:
quello di una guerra di bassa intensità che negli ultimi cinque anni ha
avuto per teatro la linea delle frontiere dove lo schieramento militare
è immediatamente esposto, i marciapiedi delle periferie su cui vengono
ridotte in schiavitù migliaia di ragazze delle terre dell'est e delle
terre africane, le cantine dove sono rinchiusi migranti cinesi a decine e a
ritmi di sfruttamento disumano, i piazzali dei cantieri sui quali, di tanto in
tanto, precipita un lavoratore extracomunitario, reclutato illegalmente,
sottomesso a regole di caporalato, queste sì inflessibili.
Nel dibattito politico nazionale si sostiene che già si è aperta
la campagna elettorale, il livello dello scontro annuncia d'altra parte un
lungo periodo di imboscate reciproche fra gli schieramenti e l'innalzamento di
cortine fumogene per allontanare i cittadini dalla risoluzione reale dei
problemi. Occorre, così, chiedere in prestito a Diogene il suo lume per
fare chiarezza e opporre, ai vari tipi di propaganda, la radicale critica alle
strategie politiche. E siccome non tutte le lampade fanno la stessa luce, in
questo caso non mi riferisco a Diogene Laerzio o al suo omonimo di Apollonia,
ma a Diogene di Sinope, esiliato dalla sua città con l'accusa di falso
monetario e tenace sostenitore dell'abolizione delle patrie in nome dell'unica
patria: il mondo. Ipotizzo anche di scegliere una tecnica di illuminazione a
stròbo, per cui le argomentazioni che seguiranno avranno l'andatura di
un susseguirsi di flash, dimensione che bene si adatta al contesto, visto che
ogni volta che apriamo squarci dentro le cortine di fumo della propaganda
elettorale, questa notte della ragione ce la ritroviamo intatta alle nostre
spalle.
Quando si studiano le politiche condotte dai governi a regime capitalista
rispetto ai flussi migratori occorre tenere presente due domande fondamentali:
1) È importante conservare la propria identità e le proprie
caratteristiche culturali? 2) È importante stabilire delle relazioni con
gli altri gruppi presenti nella società? A seconda delle risposte che
vengono date, ogni azione legislativa sposa un modello di società. Si
danno così quattro opzioni: le politiche che mirano all'integrazione
rispondono affermativamente ai due quesiti; le politiche di separazione
rispondono affermativamente al primo quesito e negativamente al secondo; le
politiche di assimilazione negano la possibilità per gli immigrati di
coltivare in suolo d'accoglienza tradizioni e culture proprie dei paesi nativi
e contemporaneamente affermano l'importanza di fare propri i modelli culturali
presenti; le politiche di marginalizzazione rispondono negativamente ai due
quesiti.
In questo ultimo modello rientrano diverse esperienze storiche di governo dei
conflitti: i pogrom contro gli ebrei, o contro gli armeni nella prima
metà del Novecento, la questione curda e quella palestinese, che stanno
infiammando il medioriente in questi primi mesi del Duemila.
Le politiche di assimilazione sono state sostenute negli Stati Uniti durante il
proprio ciclo di espansione produttiva (1880-1929) in linea con l'applicazione
del taylorismo e le strategie del malting pot, e sono ben espresse da quel
fumetto in cui si vede entrare una lunga fila di uomini migranti da ogni parte
del mondo dentro un gigantesco pentolone da cui poi esce il prototipo standard
del vero americano civilizzato. Le dichiarazioni del Cardinale Biffi in tema di
politiche migratorie prefigurano questo modello di società. Il divieto a
far entrare migranti che provengono da aree geopolitiche a regime islamico, la
lotta al loro insediamento, alla costruzione dei loro luoghi di culto annuncia
la scelta da parte del Vaticano di una strategia cattolicocentrica, per cui il
modello standard da imporre è quello che esce dalla porta chiusa a
doppia mandata dalle chiavi di San Pietro. Il ragionamento che viene fatto
è più o meno questo: il nostro paese deve difendere la propria
storia, le cui radici si nutrono all'acquasantiera del cattolicesimo,
l'ingresso dei flussi migratori deve essere selezionato in virtù di
questa griglia di riferimento; d'altra parte questo stesso modello è
sposato da tutti i paesi islamici che impediscono e perseguono ogni
insediamento cattolico nelle loro terre. Si riscopre, in questo modo di
argomentare, il vecchio adagio testamentario degli occhi e dei denti,
dimenticando che con i primi si può osservare il mondo con
curiosità, e con i secondi si possono disegnare suoni per comunicare,
accennare sorrisi per facilitare scambi di esperienze, mordere, ma del morso
che siamo capaci nei giochi sessuali.
Il modello della separazione è quello che propone, al di là delle
varie sfumature, il Polo. In questo caso si fa leva su una pluralità di
strategie politiche che tengono insieme, non credo per molto tempo, il
nazionalismo patriottico di Alleanza Nazionale, il regionalismo etnico della
Lega Nord e il sanfedismo cattolico dell'area di centro. Anche le posizioni
antieuropeiste della destra fascista, Haider in Austria ad esempio, partono da
questo assioma, la difesa della terra e del sangue, ma lasciano intendere un
progressivo spostamento delle loro posizioni verso il modello della
marginalizzazione, tanto è vero che i loro gruppi paramilitari hanno
già fatto allenamento di polizia etnica durante i conflitti
nazionalistici nei Balcani.
A differenza di questi tre modelli, le politiche che si fanno sostenitrici
della integrazione non hanno esperienze storiche significative alle spalle.
Possiamo cogliere degli spiragli che si muovevano in quella direzione nella
Francia precedente la Prima Guerra mondiale, che in virtù dei postulati
rivoluzionari dell'89 aveva dichiarato libertà di circolazione per
ciascun individuo su suolo francese. Oppure nella legislazione prodotta in
Francia durante gli anni Trenta in tema di acquisizione di cittadinanza, resa
automatica per ogni nuovo nato al di là dei paesi di provenienza dei
rispettivi genitori. Tuttavia la libera circolazione degli individui e i
criteri di acquisizione della cittadinanza sono due condizioni necessarie ma
non sufficienti per definire la politica a favore del modello di integrazione
condotta da un governo. E la stessa Francia venne ben presto meno a queste due
norme, istituendo posti di blocco alla frontiera, centri di permanenza in cui i
migranti venivano visitati, selezionati in base alla prestanza fisica e
indirizzati ai tre settori dell'economia in virtù di questa schedatura.
Oggi numerosi documenti elaborati dal governo di centrosinistra propongono di
seguire il modello dell'integrazione. Ad una attenta lettura, assistiamo, come
per altri casi, ad un tipo di linguaggio estremamente attento all'enunciazione
corretta dei paradigmi: rispetto delle differenze, ricchezza delle culture,
elogio della società plurale, aspirazione ad un mondo multiculturale
ecc.ecc(ìo). Soprattutto nei documenti elaborati dai consiglieri del
ministero della pubblica istruzione (CNPI del 1993), si coglie il tentativo di
dare contenuto teorico alle politiche di integrazione. Purtroppo questo insieme
di enunciazioni si dimostra un guscio vuoto alla luce della complessiva
iniziativa politica dei governi in tema di flussi migratori. L'istituzione dei
centri\lager, la scelta delle quote annuali di ingresso, la militarizzazione
del territorio con la fortificazione delle frontiere e i presidi armati nei
pressi delle zone di sbarco, la competenza delegata alle questure per il
rilascio dei permessi di soggiorno, l'imposizione dell'egemonia cattolica nelle
scuole pubbliche, sono tutti elementi che collocano l'azione del centrosinistra
nel solco del modello assimilazionista, per cui è importante stabilire,
manu militari, relazioni con gli altri gruppi presenti nella società,
azzerando qualsiasi legame storico e culturale con le terre di provenienza. Il
contingentamento dei flussi migratori serve esattamente a questo scopo. Faccio
notare che sulla questione delle quote Rifondazione è in sintonia con
l'azione di governo, cosa che ha creato non pochi malumori nel suo dibattito
interno. A rendere ancora più grave queste scelte interviene il dato
reale che certifica la presenza degli "stranieri" in Italia in poco più
di un milione di individui. Secondo il ministero degli interni il totale degli
immigrati è passato da 925.757 del 1992 a 1.033.235 del 1998, con un
picco di 1.270.721 nel 1997. A tal proposito conviene precisare che in
quell'anno il numero dei comunitari registrati era di 168.125, mentre gli
extracomunitari ammontavano a 1.072.596, mentre nel '98 i primi scenderanno di
circa 20 mila unità i secondi subiranno un calo secco di 180 mila
unità attestandosi su un totale di 891.416 individui. Questa fuga non
sembra essere determinata dal quel fenomeno tipico dei flussi temporanei che
è conosciuto col nome di mobilità di transito, il dato infatti
è troppo grande per dare credito a questo suggerimento e soprattutto
rompe con la tendenza degli anni precedenti caratterizzata da un trend di lenta
crescita. È stata allora la politica repressiva del governo la causa
principale dell'inversione di tendenza. Una politica del centrosinistra che non
ha risparmiato espulsioni, controlli, rimpatri, affondamento di traghetti nel
mar d'Otranto. Per quanto questa strategia di deportazione democratica possa
essere nascosta adesso da spesse cortine di fumo, continueremo, instancabili, a
porre una severa critica, a suscitare astensione, a difendere ogni donna e ogni
uomo minacciati di espulsione, a maggior ragione se si tratta di falsari di
monete e, come noi, si dichiarano: cittadini del mondo.
Luca Papini
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